Versi di un tempo che fu … Balilla

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Forse è stato per effetto dell’inchiesta sullo stato della scuola o, forse, l’aver ritrovato il decrepito sussidiario di quinta elementare. Fatto sì è che sfogliando quelle pagine di un tempo straordinariamente lontano sono riaffiorati alcuni versi che era costume far imparare a memoria agli scolari.

Cose di poco conto, non impegnative, poesiole in rima senza pretese letterarie, ma traboccanti di ricordi, di tenerezza. Un’onda di nostalgia che mi ha inumidito le palpebre.

Oggi di quei versi, di quelle rime baciate non v’è più traccia, si ha orrore di allenare la memoria degli alunni con siffatte sciocchezzuole.

Però, ho pensato (forse m’illudo), che a qualcuno potrebbe fare piacere ritrovarle, rileggerle …

 

Alberto Broglia

                                

Balilla

Ballila, divino monello, tu balzi,

foriero improvviso di un’ira

pugnace; col braccio fermato

nell’atto fugace per sempre t’inalzi.

 

In gesto di prode si muta il trastullo

dell’esile mano che il ciottolo scaglia;

si muta in araldo di strana battaglia

l’inconscio fanciullo.

 

Ballila, io sono uno che passa e che vede

da presso tradotto nel vero, un lontano

suo sogno… Oh la scuola del borgo montano!

Che febbre, che fede

 

nel nome del fiero, del baldo fratello,

scoteva ai crescenti l’intrepido ingegno!

Che invidia pel sasso lanciato a buon segno

dal maschio monello!

 

Dovunque si spiega l’italica terra

tu parli ai fanciulli di audacie non dome.

C’è un inno in Italia che squilla il tuo nome

tra nomi di guerra.

 

Nell’alte vallate guardando i nevai,

marciando in pianura fra i grani ed i fieni,

lo cantano i cori dei figli sereni.

Ballila, lo sai?

 

Or fuso del bronzo nell’epiche tempre,

rivive qui l’atto che irruppe e che vinse.

Il motto che allora gridasti: «Che l’inse?»

qui parla per sempre.

 

Fu rapido il gesto, ma in subita gloria,

quel sasso lanciato da un piccolo scalzo

ferì la sua mèta, die’ un vivo rimbalzo,

passò nella storia.

Giovanni Bertacchi

 

L’oblio che regna ancora sul poeta chiavennasco e sulle sue opere a più di sessant’anni dalla morte, sono la tangibile conferma della cecità culturale e dell’imbecillità che aleggia sulla scuola di ogni ordine e grado in Italia. In pochi, molto pochi, credo conoscano o ricordino questa poesia.

Giovanni Bertacchi, pagando di persona in tempi in cui le differenze di opinione potevano costare addirittura il carcere, fu docente al liceo Parini di Milano. Fu, a suo modo, un ribelle e, quando nel maggio del 1898 a Milano, il generale Fiorenzo Bava-Beccaris ordinò ai suoi artiglieri di rivolgere i cannoni ad alzo zero contro i dimostranti, Bertacchi non esitò a lasciare l’insegnamento al ginnasio-liceo Parini, espatriando in volontario esilio nella vicina val Bregaglia svizzera.

Rientrato a Milano e ripreso l’insegnamento, fu chiamato nel 1915 alla cattedra di letteratura italiana presso l’università di Padova “per chiara fama di poeta”, senza concorso. Coerentemente con i suoi principi si oppose con fermezza e intransigenza al fascismo, come risulta dagli atteggiamenti pubblici, ma anche dalle carte private del suo archivio. Confermo quanto detto all’inizio: il silenzio greve su Giovanni Bertacchi è una delle tante prove del sinistro oscurantismo che ammanta la scuola italiana.

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