Una morte annunciata

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Nelle nostre carceri…E’ ardua impresa fare convivere contemporaneamente nelle nostre persone l’umana pietà con le violente emozioni sollecitate, esasperate da fatti di cronaca sconvolgenti ogni comune sentire. E’ molto più semplice dare ascolto al personale istinto senza scomode e faticose mediazioni da parte di ogni individuo chiamato ad essere creatore di civiltà e non di barbarie. Su questa faticosa e non molto affollata scalata, per esempio, così scrive A.Z.

La notizia del  suicidio di Diana Blefari, la neobrigatista, accusata di concorso nell’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, avvenuto a Bologna il 19 marzo 2002, arriva in un momento particolarmente difficile  anche per altre vicende, come quella di Stefano Cucchi.

Così, insieme  all’umana pietà per una vita che  finisce, e in un modo così disperato, c’è il dolore e la vergogna di tutta la società civile quando è posta davanti ai suoi errori, ai suoi angusti limiti, angusti quanto quelle celle, dove scontano la pena i carcerati.

Questo titolo, Una morte annunciata, fra i molti che ho letto, anche assai banali, o truci, o molto ingiusti, dedicati dalla stampa  a Diana Blefari, è quello che maggiormente mi ha colpito.

Perché atterrisce, offende, induce tutti noi che leggiamo a  una sorta di rimorso, per qualcosa che era sotto i nostri occhi, qualcosa che si poteva fare, e non si è fatto, per salvare una vita, per evitare un gesto così terribile ed estremo, senza appello.

Certo, senza appello, come ogni altra morte, però, senza appello come tutte le altre tragedie simili, anche fuori dalle carceri ma , soprattutto, senza appello come le condanne che persone come Diana Blefari hanno messo in atto verso persone innocenti, verso persone invise politicamente, o per motivi professionali, o ideologici, decretandone la morte.

Molti quotidiani, quando si tratta di persone comuni, scelgono di non riportare notizia di suicidi, per rispetto, per non infierire verso chi, parente o amico, già soffre.

E, invece, se a compiere gesti simili ci sono persone conosciute,  o che abbiano perso l’anonimato per qualche motivo, ne trattano ampiamente, cercandone le cause, i responsabili, cui chiedere conto.

Le colpe vengono dimenticate, anche quelle di chi si è meritata uno dei rari ergastoli comminati dal nostro indulgente sistema giudiziario. Perché qui non si tratta di qualche  disperato ladro di galline, ma di una brigatista che ha scelto come mezzo di lotta politica l’assassinio. Ogni essere umano va aiutato, curato, rispettato in quanto tale, anche quando è un pericoloso delinquente. Ma dimenticare le colpe, e avere comprensione e pietà, è l’incredibile  malvezzo di tutti coloro i quali, ergendosi a paladini di giustizia e civiltà,  si preoccupano di proteggere e di tutelare solo i colpevoli, dimenticando le vittime.

Ignoro volutamente chi coglie anche occasioni come queste per fare della bassa propaganda politica, per cavalcare in qualche modo la notizia ai propri fini. Parlo di  chi,  riportando dati purtroppo reali, riferisce di carceri superaffollate,edifici fatiscenti, personale insufficiente. Anche se oggi il carcere non è considerato in funzione punitiva o affittiva, ma rieducativa, i detenuti sono spesso totalmente in ozio, con la disperazione  a fare fa legame ai giorni, e agli anni. Le carceri inducono alcuni alla depressione, alla disperazione, alla schizofrenia. Sicuramente la detenzione non migliora le persone, ne acuisce le caratteristiche peggiori, probabilmente, così com’è strutturata.  Altro che rieducazione, altro che reinserimento nella società. E in questo quadro i suicidi sono l’estrema scelta per vite ormai senza significato, talvolta nell’abiezione, anche se, nel caso specifico, come affermato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano, la  Blefari era «in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche» e la «sistemazione» della terrorista, in cella singola «era corretta».

Indispensabili e giuste le indagini avviate sul caso, ma nessuno parla della mancanza di orrore, da parte di questi detenuti,  per la sofferenza e la tragedia da loro  imposte a persone innocenti; nessuno parla dell’assenza in loro di pentimento, reale, e non finalizzato al proprio tornaconto, per ottenere privilegi e sconti di pena; nessuno parla dell’efferatezza di ciò che ha portato in carcere persone come la Blefari  la quale, nel corso del suo primo interrogatorio , riferendosi a Marco Biagi, fra l’altro ebbe persino a dire,:  «Se lo avessi avuto per le mani, prima di ucciderlo l’avrei torturato».

Inimmaginabile lo strazio, e quale contraccolpo possano aver avuto, tra i familiari di Biagi, queste parole, e nemmeno riesco ad immaginare quanto doloroso sia, per essi, come per i familiari di ogni altra  vittima, vedere la  partecipazione e la sollecitudine  mostrate solo per i colpevoli. Per i quali si invocano a gran voce pene alternative, arresti domiciliari, sconti, premi, regime di semilibertà… Di fronte a cose come queste, vere ingi
ustizie, intollerabili clemenze verso chi ha fatto tanto del male,  per molti cittadini la galera rimane la sola possibilità  che chi delinque ha di pagare il debito verso la società e  come pena pensano a quell’ ergastolum che in epoca romana definiva il luogo dove il proprietario rinchiudeva i più ribelli fra i propri schiavi,  dopo il lavoro forzato che essi svolgevano per la sua proprietà. Ciò è inattuabile e indegno di un paese civile, ma i cittadini che pensano questo non lo fanno perché sono incivili, vendicativi, insensibili e crudeli, sono esasperati, addolorati, impauriti e preoccupati, indignati dall’impunità, sconvolti per le ingiustizie. E queste violente emozioni sembrano, talvolta, far tacere in loro la voce dell’umana pietà.

Non è così.

 

 

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