Sono trascorsi trentacinque anni dal 7 aprile 1972. Una data che, forse, ai miei cinque lettori non dirà nulla. La data è, in effetti, sconosciuta quasi a tutti.
Tuttavia, chissà, se aggiungessi un’altra data, il 26 luglio 1956, dai recessi della memoria di qualcuno, dalle nebbie del passato, potrebbe affiorare la sagoma inconfondibile, elegante e bellissima, dell’Andrea Doria.
In quel giorno di cinquantuno anni fa si consumò una tragedia immane: la nave più bella del mondo, l’ammiraglia della nostra Marina mercantile, fu speronata dal mercantile Stockholm, e, dopo un’agonia di undici ore, affondò nelle acque dell’Atlantico settentrionale, trascinando con sé i corpi di cinquanta vittime.
Una tragedia del mare, penserà qualcuno, come ce ne sono state tante, purtroppo.
Sì, una tragedia del mare, cui si aggiunse però una sorta di colonna infame che mi proverò a riassumere.
Intorno alla dinamica dello speronamento sono state scritte pagine e pagine, tuttavia oggi, seppure a distanza di mezzo secolo, la verità negata e vilipesa pervicacemente è stata conclamata: lo speronamento avvenne a causa dell’imperizia e dell’insipienza del giovane ufficiale di turno in plancia al comando dello Stockholm. Il radar tarato su una distanza errata, una nebbia molto fitta affrontata dal giovane ufficiale senza segnalare con la sirena e le luci la propria posizione, una virata insulsa, furono l’antefatto della tragedia [1]
Poi l’urto devastante della prua rinforzata del mercantile contro la fiancata del “Doria” [2], l’agonia, l’affondamento dopo undici ore.
Al comando del “Doria” c’era un uomo di mare di alta esperienza, il Comandante Piero Calamai, cinquantotto anni.
Il comportamento del Comandante Calamai, fu, in un contesto altamente drammatico, a dir poco ammirevole: lamenti, urla di aiuto di persone incastrate nelle cabine penetrate e devastate dallo Stockholm, passeggeri che cercavano di raggiungere affannosamente il ponte di coperta. Nonostante ciò, pur di evitare il panico, Egli non diede l’ordine di abbandonare la nave.
Grazie a questo Suo atto di grande responsabilità, la maggioranza dei passeggeri non avvertì immediatamente il pericolo di morte. Lo stesso cappellano di bordo, monsignor Sebastiano Satta, comunicò con ostie consacrate molte persone, ma rifiutò di dare l’assoluzione generale appunto perché anch’egli riteneva che non ci fosse da temere l’affondamento.
Fin qui la sciagura.
Il primo capitolo di infamia riguarda la società armatrice che, a fronte delle palesi calunnie esternate dal giovane ufficiale dello Stockholm, invece di difendere il Comandante Calamai dalle insinuazioni e dalle imposture, affermando con forza l’evidente verità, scelse la via del silenzio. Silenzio che molti, troppi, interpretarono come una mezza ammissione di colpa.
Qualcuno si chiederà: perché mai la società armatrice [3] scelse questa linea?
Semplice.
La compagnia di assicurazione degli armatori dello Stockholm erano i Lloyd’s di Londra.
La compagnia di assicurazione della società Italia, armatrice dell’Andrea Doria, erano sempre i Lloyd’s.
Secondo capitolo: fu così raggiunto, in nome del puro interesse economico, un accordo extra giudiziale[4].
Ne conseguì che il processo iniziato negli USA non ebbe mai termine. La sentenza, che avrebbe già allora posto in luce le reali, gravissime responsabilità del giovane ufficiale dello Stockholm, non fu mai pronunciata.
Terzo capitolo: Piero Calamai, non solo incolpevole, ma ineccepibile, valoroso, nobile Comandante dell’“Andrea Doria”, fu posto in condizioni di non difendere sé stesso ed il suo equipaggio, fu quasi imbavagliato.
Quarto ed ultimo infame capitolo: in seguito fu isolato e non gli fu più affidato alcun comando.
Il Comandante Piero Calamai se n’è andato, dimenticato e ignorato, in silenzio, con dignità sconosciuta a molti del nostro tempo, il 7 aprile di trentacinque anni or sono, nel 1972.
L’atteggiamento tenuto dai signori del palazzo verso Il Comandante Piero Calamai è una delle tante medaglie ignobili che costellano il bavero dei potentati di casa nostra e che infangano[5] la nostra storia recente.
Inutile anche solo immaginare che a qualcuno possa venire in mente di riparare all’infame comportamento fin qui tenuto nei Suoi confronti, intitolando al Suo nome una piazza, una via, un monumento, un’aula del palazzo.
Che cosa aspettarsi, del resto, da potentati che dedicano un’aula di montecitorio ad un estremista sovversivo?
Rivolgo invece un plauso ad Alberto Angela per la fedele e corretta ricostruzione della sciagura e dei fatti successivi, trasmessa nell’edizione di “Ulisse”, del 27 ottobre scorso.
1 “La nave era in prossimità del banco dell’isola di Nantucket, a nord di New York, una delle aree più infide per la navigazione, zona di pericolose secche e di fitte nebbie che avevano già riscosso un tributo pesante. A causa dell’impenetrabile nebbia l’Olympic affondò negli anni trenta collidendo con la nave faro, mentre il Republic si scontrò con il Florida. Intanto alle ore 12.00 era salpata da New York una nave svedese con 534 passeggeri:
Inoltre non segnalava la sua posizione con
Calamai, incredulo, uscì col binocolo sull’aletta destra della plancia per cercare di avvistare il bagliore che segnalasse la posizione della nave e nel contempo ordinò un’accostata a sinistra, ma era tardi. Troppo tardi”. Ore 23
La prua dello Stockholm, rinforzata per poter affrontare i ghiacci del Mare del Nord, lacerò lo scafo d’acciaio del “Doria” 2 come fosse di latta. Penetrò per nove metri in corrispondenza del ponte superiore del transatlantico italiano.
5 Vogliate apprezzare l’eufemismo.