Stasera il governo decide se far partecipare il nostro sport alle Olimpiadi di Mosca. E pare che si pronuncerà per il no. Un no all’italiana, cioè pieno di buchi e di spifferi. Ma dobbiamo contentarci. Nelle condizioni in cui si ritrova e naviga, Cossiga compie già un miracolo dicendo ai russi: «Se non rinviate la festa, temiamo di non poterci, intervenire» senza che i socialisti spacchino tutto dopo essersi spaccati tra loro.
Se ho ben capito la meccanica di questo procedimento, dopo il no del governo toccherà pronunciarsi al Coni che potrebbe anche decidere per il sì. In tal caso i nostri campioni si presenterebbero negli stadi di Mosca senza inno né bandiera per gareggiare con gli altri a titolo privato, come apolidi.
Non vorrei essere nei panni del mio amico Franco Carraro. Come presidente del Coni, cioè dell’organismo che presiede a tutta l’organizzazione del nostro sport olimpico, egli è costretto a volere la partecipazione, come del resto la vogliono tutte le federazioni, dirigenti, tecnici e atleti, che da anni si preparano all’Olimpiade, loro più ambito traguardo. Il Coni vive di questo e per questo: non si può pretendere che il suo presidente lo rinneghi. Ma, se da una parte egli si rende conto che il boicottaggio dell’Olimpiade di Mosca, provocando automaticamente, per rappresaglia, quello dell’Olimpiade di Los Angeles nell’84, rischia di uccidere per sempre questa grande Internazionale dello sport, dall’altra capisce che anche una partecipazione a titolo privato, lungi dal sanare la rottura, la renderebbe forse più evidente.
Non ho suggerimenti da dare a Carraro, che conosce i! suo mestiere meglio di me. Dico soltanto che cosa, al suo posto, farei. Rinunzierei anzitutto a rianimare il cadavere delle Olimpiadi che, nella organizzazione attuale, sono morte. Era fatale, del resto. Si è sempre detto che la politica non deve ingerirsi nello sport. Ma è lo sport che vi si presta consentendo alla politica di far pesare le proprie scelte di campo e di strumentalizzare i Giuochi a fini di propaganda. Il difetto non è di ora ; è di sempre. Le Olimpiadi di Hitler, nel ’36, furono l’apoteosi del nazismo. L’esclusione dei «razzisti» sudafricani e rhodesiani fu un trionfo politico del Terzo mondo. La designazione della sede è, di volta in volta, la posta di un giuoco complesso in cui la politica svolge una parte decisiva. In fase di distensione, tutto si aggiusta. In fase di tensione, gli strappi sono inevitabili e continueranno ad esserlo fin quando le Olimpiadi saranno, per chi le ospita, oltre che un eccellente affare economico, anche una carta di credito e un’affermazione di prestigio. In fondo, Carter ha ragione: andare a Mosca, oggi, con le proprie bandiere, significa riconoscere e accettare l’invasione dell’Afghanistan.
E allora, secondo noi, non c’è che una cosa da fare, e Carraro si guadagnerebbe grande merito facendola : prendere subito l’iniziativa dell’unica possibile operazione di salvataggio: la restituzione delle Olimpiadi, a titolo permanente, alla loro patria d’origine. Non è una fantasia da letterati come molti credettero quando ne avanzammo la proposta. È che in Grecia, automaticamente, l’Olimpiade ridiventerebbe quello che fu per oltre mille anni: la grande sagra di uno sport veramente al di fuori delle vicende politiche. In mille anni, di vicende politiche ce ne furono di tutte le specie, belle e brutte, gloriose e rovinose. Né vittorie né sconfitte impedirono ai greci di tenere, ogni quattro anni. le Olimpiadi. Le fecero mentre arrivavano i persiani, mentre si dissanguavano fra Atene e Sparta, e continuarono a farle anche dopo essere diventati una provincia macédone e poi romana. Perché Olimpia era veramente riuscita a collocarsi fuori dal tempo e dalla spazio. Che è ciò che le Olimpiadi devono fare, se vogliono ancora salvarsi. Altrimenti seppelliamole, e non pensiamoci più.
Quando si dice Olimpia, si dice, beninteso, tutta la Grecia, dove certamente esistono grossi problemi di attrezzature sportive e turistiche. Ma queste sono difficoltà che si superano. Quella che non si supera è l’impossibilità di conciliare la castità sportiva dell’Olimpiade coi suoi peripatetici costumi. Anch’essa, finché fa la battona, ha bisogno del protettore. Riportiamola a casa sua, fra le rocce d’Acaia e la rupe di Messenia, che, oltre tutto, è uno dei più bei posti del mondo, e dove i fatti che tuttora fanno notizia non sono né l’Afghanistan né l’Iran, ma la famosa cazzottata che proprio qui Zeus inflisse a suo padre Saturno per strappargli la signoria del Cielo, e la memorabile corsa dei carri in cui Pélope vinse, sia pure da magliaro, la mano d’Ippodamia e il trono di Enomao.
Solo in questo magico ambiente le Olimpiadi potranno rivivere.
Lunedì 19 maggio 1980