Sono arrivate le mamme dei quarantatré fratellini della morte

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Albenga (Savona), 16 luglio 1947. È pomeriggio quando la barca Annamaria , con a bordo ottantadue piccoli ospiti di una colonia marina di Loano, si inabissa a un centinaio di metri dalla riva. Nell’affondamento muoiono quarantatré bambini (un altro spirerà in ospedale) quasi tutti figli di partigiani e reduci, trentotto dei quali provenienti dalla provincia di Milano, tre donne e la figlia di una di queste. L’imbarcazione, che si dirigeva verso l’isola di Gallinara dove la comitiva doveva andare in gita, urta contro un palo di ferro a pelo dell’acqua (palo che avrebbe dovuto sostenere il tubo di scarico delle fogne cittadine). L’urto provoca uno squarcio nello scafo e in pochi secondi l’Annamaria affonda. Alcuni bambini riescono a raggiungere la riva a nuoto, altri vengono tratti in salvo dagli adulti, ma per la maggior parte di loro non c’è nulla da fare.

Alberto Broglia

 

Sono arrivate le mamme dei quarantatré fratellini della morte

 

I 43 bambini annegati insieme nelle acque di Albenga dovevano partire sabato per tornare alle loro case. Alcuni vivevano nella colonia dall’inverno scorso, altri da un paio di mesi. Con misteriosa perfidia, che non riusciremo mai a capire, il mare ha detto: no.

Le 42 mamme perché due delle vittime sono fratelli li aspettavano di ritorno per la fine della settimana. Ma il mare si è opposto e perciò esse si sono precipitate qui ad Albenga, a bordo di una corriera. Il loro terrificante drappello di desolazione e di pianto è accorso dal nord per raccogliere ciò che è rimasto delle loro creature, per baciare questi gelidi bambolini per l’ultima volta.

Da alcune ore, Albenga le aspetta con una specie di paura. Perché si capisce come soltanto al loro arrivo, quando si udranno le loro voci, il dolore sarà vero dolore. Che cosa diranno? Che volto avranno? Il solo pensiero fa spavento. Mentre ora telefoniamo, un brusio si ode provenire dalla piazza che poco fa non c’era. Intravediamo dalla porta, un autobus che avanza lentamente e adesso si ferma. Un richiamo solitario e altissimo. «Ginetto!» o «Ninetto!», non si capisce bene. Un braccio si agita da un finestrino: sono loro.

Che cosa vedranno? Vedranno i quarantatré loro figli distesi a fianco a fianco, trasformati in modo inverosimile. Sono in un vasto, largo padiglione con scritto sulla facciata «Croce Bianca Ambulatorio». Fuori c’è l’allegra piazza di Albenga con le palme, le panchine, i chioschi, il sole e persine quell’aria serena di festa portata qui dall’estate balneare. Ma appena si entra vien meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo macabro. Vi è invece una cosa incredibilmente gentile: di qui la sua infernale potenza.

Lungo le pareti dell’ampia sala hanno disposto tre specie di panche, ricoperte di bianchi teli. Due più brevi ai lati, una lunghissima di fronte. Su quella a destra giacciono tre donne e una bambina non ancora identificate, coperte fino al petto da un lenzuolo. Ma è sul rimanente che gli sguardi si fermano pazzescamente affascinati. Quarantatré bambini, dai 3 ai 10 anni, dormono quieti e bene allineati, le manine congiunte sul petto e gli abitini da spiaggia: le allegre tute, i camiciotti a colori. I piccoli piedi nudi non si muovono di un millimetro, non si muovono più i petti nel respiro, le bocche tenere sono ferme. Ce n’è uno, il primo a sinistra entrando, delicato e fine, con un fazzoletto bianco annodato sotto il mento. Qualcuno ha fra le labbra un batuffolo di cotone. Questi i soli segni un po’ strani. Ma la morte non si riesce a vederla. Essa ha toccato; e poi, si direbbe, se ne è andata via lasciandoli intatti. Non ce n’è uno dei quarantatré che abbia l’impronta del patimento e del terrore; non ce n’è uno brutto. Solo che si assomigliano in modo stranissimo l’uno all’altro. Ieri, probabilmente, ciascuno era un tipo a sé. Ciò che a loro è successo, li ha trasformati in tanti fratellini. Se ne guarda uno, poi un altro, tre, quattro, dieci: il conto diventa una grande fatica. Poi non ci si crede più. Tutto questo è impossibile; è uno scherzo mostruoso.

Entrano spauriti uomini e donne, e guardano. Grandi foglie di palma fanno tutto attorno da spalliera e i fiori crescono nel breve intervallo fra bambino e bambino. Un’infermiera passa con un batuffolo di cotone, pulendo con materna delicatezza le piccole bocche socchiuse, come se i

bimbi fossero solamente malati, quasi un ultimo ritocco prima che cominci una festa. E crescendo i fiori e restando così dolci, rasserenate e belle le quarantatré creature, cresce anche quell’inverosimile senso di gentilezza complessiva. Cosicché la gente pare stenti a capire e fissa lo spaventoso schieramento con occhi atoni e vuoti.

Fra poco singhiozzi indicibili si udranno nel salone della Croce Bianca, dalle cui pareti bianche i volti di benefattori in ingrandimenti fotografici sorridono glacialmente. E c’è stato raccontato come è successo il naufragio. Ottantuno bambini del Preventorio colonia, fondazione «Solidarietà nazionale» (stabilito presso una colonia scolastica milanese di Loano) salirono ieri verso le 16 su una barca a motore per fare una gita sino all’isolotto di Gallinaria di fronte ad Albenga. Una escursione consueta, che questa volta toccava per turno al gruppo dei più piccoli. I bambini erano accompagnati da tre assistenti, di cui una sola sapeva nuotare. Livia Mariani, fu Giuseppe, di 28 anni, abitante a Milano in corso Buenos Aires 9, Adriana Ferro, di Domenico, di 26 anni, da Spotorno, e Angela Serrato, di Ferdinando, di 25 anni, da Giustenice (Loano).

Erano pure a bordo il bagnino della colonia, Antonio Giordano, di 37 anni, da Loano, oltre al motorista e al capobarca, fratelli Angelo e Bartolomeo Podestà, di Loano, di 56 e 46 anni, che affittavano l’imbarcazione.

Lietamente la comitiva si era staccata dall’imbarcadero di Loano e su mare calmissimo andava costeggiando la riva a breve distanza. Un’ora e mezzo dopo, alle 17.30, in località Burone, là dove sotto a un viadotto della ferrovia sbocca in mare la fognatura di Albenga, la barca si impennò con un terribile scossone. Tutti caddero per il contraccolpo, gli uni sugli altri. Immediatamente dal fondo del barcone zampillarono potenti getti d’acqua. Lo scafo si era squarciato.

Cos’era accaduto?

La barca era a
ndata a urtare contro uno dei pali di legno piantati sul fondo per sostenere il condotto della fognatura.

Decine di imbarcazioni di analogo pescaggio passavano giornalmente in quello specchio d’acqua. La mattina stessa la medesima barca a motore si chiamava Annamaria ed era lunga nove metri aveva fatto quel percorso senza inconvenienti. Questa volta, incocciò nel palo fatale. Lo scafo ne fu trapanato come un foglio di carta. Tutto si svolse con una semplicità straordinaria.

La Mariani ci ha raccontato:

«Non ho capito neanch’io come mi sono trovata in acqua. Io non so nuotare. Sono sprofondata e annaspavo finché ho visto una cosa scura sopra di me: ho allungato le braccia, credendo che fosse una persona. Invece era un’asse, per fortuna. Così sono rimasta a galla. Intanto, due bambini mi si erano attaccati alle gambe. Ho fatto per tirarli su; ho sentito le loro manine abbandonarmi. Non li ho visti più.

Intorno, tutti gridavano. Ma dov’erano i bambini? Che li avessero già portati a riva? Ve n’erano pochissimi a galla. Solo dopo ho capito. Si erano avvinghiati gli uni con gli altri, facendo grappolo e così sprofondarono in pochi istanti. La mia compagna Serrato, che anche lei non sapeva nuotare, è riuscita ad aggrapparsi all’albero della barca che sporgeva ancora dall’acqua. Le si erano attaccati ben sette bambini che hanno potuto resistere finché sono arrivati i soccorsi.

Sulla riva c’era poca gente. Qualcuno si è subito buttato a nuoto. Gli altri, vedendo tanti bambini, sono corsi a chiamare delle barche. Io mi guardavo intorno terrorizzata. I bambini continuavano a gridare: sembravano tanti passeretti. “Aiuto! Mamma! Mamma!” Non si sentiva altro. Poi non ho capito più niente. Qualcuno mi ha tirato a riva e così sono salva.»

Non si è potuto sapere esattamente chi andò al soccorso. L’allarme si propagò come un fulmine per Albenga. Dopo poco – ma che interminabile tempo era intanto passato! – arrivarono barche di ogni tipo. Il contadino Parilla riuscì a tirare in salvo 15 bambini, sul suo esile «gozzo».

Ma una donna – tre donne si erano unite alla comitiva dei bambini – si era aggrappata al bordo, e una cinquantina di metri dalla riva la barca si rovesciò. A nuoto, il Parilla riuscì a salvarli tutti e quindici. I piccoli boccheggianti si ammucchiarono sulla riva deserta e disabitata. Per fortuna era accorso il dott. Ambrogio Navone, dell’ospedale di Albenga. Egli fece la respirazione artificiale ai più stremati, e da solo, si può dire, ne salvò ben diciotto. Altri, intanto, con tecnica più o meno scientifica, presero ad imitarlo. Se no la tragedia sarebbe stata ancor più grande.

Si sono pure distinti nell’opera di salvataggio i medici Aschero, Craviotto, lo studente in medicina Moisello e il radiologo Massone, sebbene privo di una mano.

Sono stati trattenuti dall’Arma dei carabinieri il direttore della colonia, due barcaioli e un bagnino che erano a bordo. Un bambino, Giuseppe Pianta, da Milano, di 7 anni, senza saper nuotare è pure riuscito a percorrere i 150 metri che lo dividevano dalla spiaggia, con un piccolo di 4 anni attaccato ai capelli; anche Roberto Ronca, veronese, riusciva a raggiungere la spiaggia benché inesperto nel nuoto.

Mentre si affollavano di bambini le corsie dell’ospedale di Albenga, sulle acque del Burone cominciavano le ricerche senza speranza. Piccoli corpi inanimati venivano tratti uno ad uno dalle placide acque e via via erano trasportati nell’ambulatorio della Croce Bianca. Prima delle 23, il ricupero era finito.

Intanto, le mamme si addormentavano serenamente, dopo la consueta preghiera per il loro bambino lontano.

«È come se fosse passata la guerra una seconda volta» mi ha detto stamane un ferroviere. In tutta la riviera di Albenga non si vedono che facce chiuse e serie. La folla all’ingresso della maestosa camera ardente va facendosi sempre più grossa e cupa. Ieri, sono giunti il prefetto, il questore e il comandante dei carabinieri di Savona. Stamane il vescovo De Giuli ha celebrato la messa dinanzi ai 43 innocenti. È atteso il sindaco di Milano, Greppi. I funerali, si dice, dovrebbero essere fatti domani mattina, ma non è stato ancora deciso niente di definitivo. Intanto in una cameretta dell’ospedale i due più gravi dei bambini superstiti si lamentano flebilmente, vaneggiando:

«Che caldo!» mormora l’uno.

«Ho sete… Tornare a casa… La mamma, la mamma… Ho sete…»

Dino Buzzati

 

 

 

«Corriere d’Informazione» [1] , 17 luglio 1947

 

Un ringraziamento particolare a Maria per aver reperito  il volume, ormai quasi introvabile, da cui è tratto l’articolo.

La “”Nera”” di Dino Buzzati

Crimini e Misteri – Incubi, a cura di Lorenzo Viganò Mondadori -2002

 

Articoli precedenti:

Dino, non fare storie

 

 

 


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