Sentenza processo Mills: per Berlusconi è prescrizione che non vuol dire assoluzione

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Questa rubrica - ancora in fase di allestimento – propone un approfondimento di tematiche mettendo a confronto i diversi articoli che sull’argomento sono stati pubblicati dai quotidiani italiani a diffusione nazionale presenti nelle edicole o nel web.

Gli articoli di cui proponiamo la lettura contengono tutte le indicazioni idonee per individuarne la fonte o il link per una diretta consultazione.

Le stelline, come ormai prassi, indicheranno l’autorevolezza di un pezzo. (Da leggere ê Da non perdere êêDa conservare êêê)

Anche in questo spazio saranno apprezzati i commenti dei lettori.

 

L’argomento da approfondire in questa rassegna stampa e’: Sentenza processo Mills: per Berlusconi è prescrizione che non vuol dire assoluzione

 

   

 

Un lasciapassare ad personam**

di Massimo Giannini del 26 febbraio 2012

 

Le sentenze si rispettano. Sempre. Sia quando esaudiscono un’aspettativa, sia quando la frustrano. Promanano dai tribunali della Repubblica, dunque da un potere riconosciuto dalla Costituzione. Per questo, anche la sentenza che ha salvato Silvio Berlusconi dalla condanna per il caso Mills merita rispetto. Ciò non toglie che anche questa, come molte altre che l’hanno preceduta, sia l’ultima ferita allo Stato di diritto. L’ennesino salvacondotto “”ad personam””, che ha permesso all’ex presidente del Consiglio di sottrarsi al suo giudice naturale. I luogotenenti della propaganda arcoriana sono già all’opera. Raccontano la solita favola, che purtroppo abbiamo imparato a conoscere in questi quasi vent’anni di eclissi della ragione. “”È finita la folle corsa dei pubblici ministeri””, esulta Ghedini. “”La persecuzione è fallita, ho subito oltre 100 processi e sono stato sempre assolto””, ripete il Cavaliere. Manipolazioni e mistificazioni, ad uso e consumo di un’opinione pubblica narcotizzata e di un’informazione addomesticata.

La prima bugia. La corsa dei pm non è stata affatto “”folle””. Nella vicenda Mills, come la sentenza della Corte di Cassazione ha già certificato nell’aprile 2010, confermando sul punto le due precedenti pronunce di primo e secondo grado, è scritto nero su bianco: Berlusconi fu il “”corruttore”” dell’avvocato inglese, che ricevette 600 mila dollari per testimoniare il falso nelle inchieste sui fondi neri depositati nelle società offshore della galassia Mediaset. Ora sarà necessario aspettare il deposito delle motivazioni, ma anche quest’ultima pronuncia del tribunale di Milano riconferma quell’impianto accusatorio. Mills fu corrotto dal Cavaliere, come il pm Fabio De Pasquale, tutt’altro che folle, ha tentato di dimostrare in questi cinque lunghi anni di processo. E se il Cavaliere non subisce la condanna che merita, questo non accade perché “”non ha commesso il fatto””, o perché “”il fatto non sussiste””, come prevedono le formule di assoluzione piena. Ma dipende solo dal fatto che il reato è prescritto. E non è prescritto per caso. Le irriducibili tattiche dilatorie della difesa da una parte, le insopportabili pratiche demolitorie del governo forzaleghista dall’altra, hanno “”cucito”” la prescrizione sulla figura dell’ex premier.

Qui sta la seconda bugia. Berlusconi ha subito finora non 100 processi, ma 17. Di questi 4 sono ancora in corso: diritti Mediaset, Mediatrade, Ruby e affare Bnl-Unipol. Di tutti gli altri, solo 3 si sono conclusi con un’assoluzione, per altro con formula dubitativa. Tutti gli altri 11, compreso l’ultimo sul caso Mills, si sono risolti grazie alle norme ad personam che lo stesso Berlusconi, usando il pugno di ferro del governo, ha imposto al Parlamento per fuggire dai processi, invece che difendersi nei processi. Depenalizzazione dei reati di falso in bilancio (da All Iberian alla vicenda Sme-Ariosto), estensione delle attenuanti generiche (dall’affare Lentini al Consolidato Fininvest), riduzione dei tempi della prescrizione (dal Lodo Mondadori al caso Mills, appunto). Sono tante le “”leggi-vergogna”” con le quali il presidente-imputato è intervenuto nella carne viva dei suoi processi, per piegarne il corso e l’esito in suo favore.

Anche la sentenza di ieri, dunque, è il frutto avvelenato di questa scandalosa semina berlusconiana. Un irriducibile cortocircuito tra istituzioni. Un insostenibile conflitto tra poteri. L’esecutivo militarizza il legislativo per sottomettere il giudiziario. Quella stagione, per fortuna, è politicamente alle nostre spalle. Ma i danni collaterali, purtroppo, continuano a scuotere il Paese. In una destra ormai popolata di anime perse, ma non per questo meno irresponsabili, c’è già chi vede in questa prescrizione processuale l’occasione di un riscatto politico per il Cavaliere. Questa sì, è una vera follia. L’incubo berlusconiano l’abbiamo già attraversato, e continuiamo ancora a pagarne il prezzo sulla nostra pelle e con le nostre tasche. A chi oggi continua a protestare a vanvera per il “”golpe in guanti bianchi”” di Mario Monti, bisognerà ricordare che se in Italia c’è stato davvero un ciclo di “”sospensione della democrazia””, l’abbiamo vissuto con il governo del Cavaliere. Non certo con quello del Professore.

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Un esito figlio di tre leggi  **

del 26 febbraio 2012 di Carlo Federico Grosso

 

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato.

Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale.

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Ecco il grande sbaglio della sinistra sul Cav*

del 26 febbraio 2012 di Giuliano Ferrara

 

Cavillano sulla sentenza Mills, senza riconoscergli il ruolo di padre fondatore del governo tecnico

L’ultima caricatura maligna di Berlusconi è quella di un uomo di Stato in declino che sacrifica tutto, partito idee programma, per spalmarsi insinceramente sul governo Monti e fare i propri interessi personali e aziendali. Gli stessi republicones, che lo descrissero come un autocrate o un egoarca a capo di un regime da abbattere con mezzi antitirannici, e non hanno ancora chiesto scusa ai frastornati lettori per la grande scemenza propinata loro lungo gli anni, non possono accettare la realtà politica di un signore che se ne va con un tratto di noncuranza e invece di coltivare risentimenti e vendette commisura ai fatti il suo giudizio sul governo dei tecnocrati che ha contribuito a far nascere in un patto con il Quirinale. Zizzaniosi come sono, cavillano sulla sentenza del processo Mills per cercare di ridarsi un tono, e nel frattempo tacciono sulla verità delle cose, o la deformano pesantemente.

Vediamo di ripristinare il senso delle proporzioni, magari anche a vantaggio della loro serenità mentale. Dunque, tutti sanno che qualcosa di notevole è successo e qualcosa di notevole sta per succedere. Le pensioni sono state cambiate strutturalmente, e la facoltà di licenziare per ragioni economiche sta per diventare una realtà. L’inquietudine febbrile della sinistra si spiega da sola. Il primo governo Berlusconi del 1994 cadde sull’assalto giudiziario, ma il grilletto del colpo mortale fu premuto dai sindacati e dalla sinistra sul tema della riforma delle pensioni, una misura di buon senso sostenuta dall’economista liberal Franco isolinii. A un governo tecnico non parlamentare e non eletto è riuscito in cinquanta giorni di fare quel che non era mai riuscito alle classi dirigenti moderate e liberali, e in particolare a Berlusconi e ai suoi ministri, da decenni a questa parte: il passaggio dal sistema di finanziamento della previdenza detto «a ripartizione», troppo generoso per un Paese progressivamente indebitato come il nostro e in generale per lo stato del benessere europeo, a quello detto «contributivo».

Ma ora si passa dalle pensioni al mercato del lavoro. Non si tratta ovviamente di autorizzare in generale licenziamenti immotivati, ma di liquidare nella sostanza la tutela di un’altra epoca storica e sociale, quella dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che rende difficile la messa in mobilità dei dipendenti e dunque impone una funesta cautela a chi rischia nell’impresa quando si tratta di assumerli. Una rigidità che, con l’allargamento a dimensione mondiale dei mercati, rende molto meno competitivo il sistema economico italiano, e fa da barriera, magari non secondo gli esperti e i sociologi del lavoro tuttofare ma certamente secondo gli imprenditori seri (da ultimo Sergio Marchionne), agli investimenti domestici ed esteri in Italia. I dati sulla disoccupazione giovanile e sul precariato dicono che il nostro è un sistema immobilistico, con false garanzie sui posti di lavoro improduttivi, ed emarginazione per i non garantiti. Una malattia mortale che solo un nuovo regime di ammortizzatori sociali da costruire nel tempo, diverso dalla logica della cassa integrazione, può curare (insieme alla caduta della clausola del reintegro giudiziario automatico per chi sia licenziato per ragioni economiche).

Se Berlusconi appoggia il governo Monti con una certa alacrità, e magari con un tantino di zelo che si potrebbe risparmiare, c’è ragione di credere, puramente e semplicemente, che il governo tecnocratico sta riuscendo a fare quello che Berlusconi voleva fare e non riuscì a fare, con le sue maggioranze di coalizione, con le sue opposizioni coltello tra i denti. O no? Ho già detto delle pensioni. Ma tutti ricordiamo che nel 2001, in occasione della prima grande crisi determinata tra le altre cose dall’11 settembre, Berlusconi fece un «patto per l’Italia», proprio sull’articolo 18, con i sindacati moderati e solidaristici che ci stavano, la Cisl e la Uil, e fu fermato da una lunga e massiccia e minacciosa battaglia d’arresto guidata dalla Cgil di Sergio Cofferati e sostenuta alla fine anche dalla solita Confindustria deboluccia e conviviale, quella stessa che con la signora Marcegaglia ha di nuovo ciurlato nel manico dopo che un colosso come la Fiat, per poter investire in Italia, era dovuto uscirne e farsi come si dice gli affari suoi, il suo business . La signora si avvicinò di recente ai sindacati contro un nuovo modello di relazioni industriali e si fece impietosa censora del berlusconismo con un piccolo opportunismo petulante, lo stesso che ora le suggerisce di definire con malagrazia i lavoratori dipendenti da espellere dal processo produttivo una pletora di ladri e di fannulloni.

E volete che in questa situazione, in un Paese in cui le posizioni riformiste sul lavoro, spesso uscite dal seno della sinistra liberale degli Ichino e degli altri, si pagano con la condanna a morte per il reato ideologico di intesa con il nemico (Ezio Tarantelli, Marco Biagi, Sergio D’Antona), Berlusconi non sostenga i provvedimenti riformatori del
governo Monti-Fornero? Non è una ragione abbastanza seria, più seria delle dicerie sulla giustizia e sulle aziende dell’ex premier, per una intesa politica con il successore che fa esattamente le cose che voleva fare il predecessore? La sinistra e Repubblica dovrebbero usarci la cortesia di grattarsi la loro rogna e il loro risentimento, senza attribuire machiavelli e perfidie pro domo sua all’Arcinemico. Lo hanno già fatto per anni, alla fine con scarsissimi risultati.

 

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Se la magistratura sembra l’inquisizione**

del 26 febbraio 2012  di Vittorio Sgarbi 

 

La prescrizione è una condanna per De Pasquale, il pm che per la seconda volta si rifiuta di applicare la legge e avanza nella sua richiesta di condanna oltre i termini consentiti

 

Finalmente una sentenza di condanna nel «processo Mills». Il dato è evidente, plastico. So che il solito Travaglio dirà che una prescrizione non è un’assoluzione, e ricorderà che per un’analoga situazione (e anzi,medesimo, benché separato, processo) il Tg1 di Minzolini, quando toccò a Mills, parlò di assoluzione e non di prescrizione. Gli si può ribattere che le condanne, giuste o sbagliate, sono tali soltanto nella sentenza definitiva della Cassazione, e che riconoscendo la prescrizione, il Tribunale rinuncia a pronunciarsi nel merito. Ma è proprio il pronunciamento della prescrizione che rappresenta una irrevocabile condanna per Fabio De Pasquale, il pm che per la seconda volta si rifiuta, manifestamente, di applicare la legge e avanza nella sua richiesta di condanna, oltre i termini consentiti dalla norma.

La presa d’atto della prescrizione non è una sentenza, ma una determinazione cronologica. E, quando si è fuori tempo massimo, è necessario interrompere le udienze

De Pasquale ha cercato di dilatare a suo piacimento una scadenza che non è opinabile e che non può che essere precisa come le date di nascita e di morte. Ha, sostanzialmente infierito sul cadavere, mostrando un accanimento inaccettabile per un uomo di legge, pubblico ministero o giudice che sia.

Con il riconoscimento della prescrizione il Tribunale lo ha sanzionato, ma la condanna morale e spero materiale che gli tocca, viene da lontano, ed è stata pronunciata in modo netto e inequivocabile da un suo illustre collega. Lo abbiamo visto qualche giorno fa in occasione dell’anniversario di Tangentopoli, celebrato in televisione da Giovanni Minoli. Nella documentazione e nelle dichiarazioni dei protagonisti a un certo punto si sente Di Pietro commentare il suicidio di Cagliari come una sconfitta e una vergogna della magistratura. Si trattava, come molti ricorderanno, di una situazione opposta a quella del «processo Mills», ma il protagonista era sempre De Pasquale.

Nel caso di Berlusconi, pur certo della prescrizione, ha dimostrato una fretta indiavolata; ha addirittura cercato di conteggiare i tempi morti determinati, per l’alta funzione pubblica di Berlusconi, dal «legittimo impedimento», pur sempre riconosciuto dalla Costituzione.

Nel caso di Cagliari nessuna fretta. Indifferente allo stato di prostrazione di un uomo in carcere, De Pasquale, come tutti ricordano, e come denunciò lo stesso Cagliari in una memorabile lettera, non rispettò la promessa di interrogarlo in tempi brevi e anzi andò in ferie per le vacanze estive lasciando l’indagato ad aspettare. In quella circostanza non si preoccupò dei tempi, diversamente percepiti da chi è libero rispetto a chi è agli arresti.

Sentendosi abbandonato, senza alcuna certezza del suo destino e rispetto della sua persona, in balìa delle decisioni e degli umori del pubblico ministero, Cagliari si uccise.

Di Pietro, nella ricostruzione e nella valutazione dell’episodio, fu implacabile, non riconoscendo attenuanti a De Pasquale, il cui comportamento aveva danneggiato, oltre che Cagliari, la magistratura. Con comportamento opposto, De Pasquale, nel «Caso Mills», ha rivelato un volto persecutorio della magistratura. Il Csm, come già fece, lo assolverà. Ma le parole di Di Pietro, giustizialista in servizio permanente effettivo, restano la peggiore condanna.

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Le osservazioni precedenti su accanimenti e isolin di magistrati, si possono ovviamente estendere al sempre più inquietante caso di Lele Mora, che viene trattenuto in carcere, senza condanna, oltre ogni ragionevole necessità relativa ai rischi, per evitare i quali è stabilita la custodia cautelare. Reiterazione del reato: impossibile. Inquinamento delle prove: impossibile. Pericolo di fuga: monitorabile anche con gli arresti domiciliari.

Perché dunque Mora è in carcere? Può essere considerato pericoloso per la società? È giusto mortificarlo oltre misura? E se dovesse essere assolto? Non sarebbe giunto il momento di limitare la carcerazione preventiva ai casi di pericolosità sociale o ai crimini di sangue o di terrorismo, e limitare ai tempi tecnici (10-15 giorni per le necessarie verifiche contabili) la custodia cautelare per reati diversi, soprattutto amministrativi?

Infine mi chiedo: perché il mondo gay sensibilissimo ai diritti (penso alle battaglie di Paola Concia e Franco isolini) non si mobilita per la liberazione di un uomo i cui reati sono direttamente connessi alle sue abitudini sessuali e che comportano la disponibilità di molto danaro? Dobbiamo nascondercelo? E il mondo gay deve vergognarsi della verità? Si sono forse vergognati di isolini?

Ed allora abbiano il coraggio di difendere Mora e di chiederne la liberazione. I suicidi di Tangentopoli dovrebbero essere sempre un monito. Non è giusto uscire dal carcere con i piedi in avanti.

 

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Facci: i fallimenti della toga ad personam *

del 25 febbraio 2012 di di Filippo Facci

 

Ritratto del pm De Pasquale: dal suicidio di Cagliari durante Tangentopoli al “”confino”” per Colucci. Perfino Borrelli lo sgridò

Il proscioglimento per prescrizione era stato richiesto dalla difesa in subordine all’assoluzione piena: e basterebbe questo a decretare vincitori e vinti. O forse bastava il sorriso dell’avvocato Ghedini, o meglio ancora:  bastava la faccia del pm Fabio De Pasquale, che non si capisce neanche che cosa sperasse di ottenere. Forse una condanna «morale»: come se il sistema penale servisse a questo.

 

I giudici non hanno deciso sul merito, ecco tutto: sicché per appiccicare a Berlusconi lo status di «corruttore» (che i suoi nemici, tanto, gli attribuivano già) occorre riesumare la Cassazione del processo Mills (il primo) laddove l’avvocato inglese in effetti figura corrotto: dimenticando che però Berlusconi, in quel processo, non era imputato, anche perché nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato. Pare invero pretestuoso anche appellarsi all’ennesima legge ad personam: la norma che ha accorciato la prescrizione (da 15 a 10 anni, in questo caso) è del 2005, prima ancora del rinvio a giudizio e due anni prima che il processo, tra un rinvio e l’altro, cominciasse effettivamente. Significa, non fosse chiaro, che non è mai esistito il minimo dubbio – sin dall’inizio – sul fatto che sarebbe finita così: ci si poteva soltanto accapigliare sulla data precisa della prescrizione, ma non su di essa. Il primo novembre 2006, senza particolari doti divinatorie, lo scrivente la mise così: «L’ottavo rinvio a giudizio per Berlusconi su tredici tentativi non andrà a finire da nessuna parte: la prescrizione è pressochè garantita». Prescrizione che perciò non può certo definirsi un «incidente», e che pone dubbi retorici circa una giustizia che a fronte di tre milioni di arretrati butta via tempo e soldi e stipendi (quelli dei magistrati) per inseguire una prescrizione certa, un proscioglimento certo, e tutto per il puntiglio di toghe ad personam. Tra l’altro c’è il forte rischio che non sia ancora finita, visto che le difese paiono decise a impugnare la sentenza – per ottenere l’assoluzione piena – e così pure il pm ha detto che «valuterà» se ricorrere in Cassazione. La follia potrebbe continuare, insomma: ma qui meriterebbe un discorsetto personale il pm Fabio De Pasquale, se non fosse che ha la querela facile.

Occorrerebbe chiedersi, tuttavia, che cosa sarebbe di un pm come lui se fossimo negli Usa, laddove la carriera dell’accusa è commisurata ai successi che ottiene. De Pasquale, per dire, nei primi anni Novanta fu capace di mettere d’accordo l’intero Parlamento a margine di un’inchiesta sui fondi neri Assolombarda, quando l’intero emiciclo – sinistre e forcaioli compresi – respinse  le richieste di autorizzazione a procedere per due deputati liberali e due repubblicani: l’intento del pm fu giudicato «persecutorio» dall’intero arco costituzionale. Poi ci furono le frizioni col Pool e in particolare con Di Pietro: litigarono per la gestione dell’indagato Pierfrancesco Pacini Battaglia (Di Pietro, accentratore, lo voleva tutto per sé) sino a un litigio furioso nel tardo settembre 1993, quando un certo latitante, Aldo Molino, sbarcò a Linate e si consegnò a Di Pietro nonostante fosse ricercato da De Pasquale. Volarono urla.

È  lo stesso periodo in cui il pm condusse anche la chiassosa indagine sul regista Giorgio Strehler (chiese la pena massima, ma Strehler fu assolto con formula piena) e così pure l’indagine sui fondi Cee, roba con percentuali di assoluzione mostruose. Pochi ricordano quest’ultimo caso, eppure fu cornice di uno degli episodi più raccapriccianti del periodo di Mani pulite, stigmatizzato anche dal p
rocuratore capo Francesco Saverio Borrelli: l’indagato  Michele Colucci, socialista, fu ammanettato e trascinato nella calca dei giornalisti sinché svenne; in precedenza De Pasquale aveva ottenuto per Colucci il provvedimento addirittura del confino, soluzione adottata di norma per i mafiosi. Arrestato, le condizioni del detenuto sessantenne si fecero drammatiche (come svariate perizie mediche confermarono) ma l’atteggiamento di De Pasquale rimase durissimo, tanto che fece di tutto per farlo finire comunque a San Vittore anziché in ospedale. La figlia di Colucci, giornalista della Rai, fece un pubblico appello che fu raccolto da politici e da giornalisti anche noti, come Gad Lerner. Nonostante la ferocia dell’opinione pubblica di quel periodo, alla fine Colucci, da poco trapiantato di  cuore, ottenne gli arresti domiciliari per quanto strettissimi. Dopo nove mesi di carcerazione detentiva, alla fine, il pericoloso criminale potè uscire: sarà assolto in Cassazione. Un altro successo di De Pasquale.

Poi c’è il noto caso di Gabriele Cagliari, celebre indagato di Mani pulite. Dai verbali del suo legale, Vittorio D’Ajello: «Il dottor Fabio De Pasquale, alla fine dell’interrogatorio, disse al Cagliari che avrebbe dato parere favorevole alla sua libertà, affermando espressamente rivolto al Cagliari: “Lei me l’ha messo in culo, ma io devo liberarla”». Gli ispettori ministeriali, senza punire il magistrato, conclusero: «Il dott. De Pasquale, con espressioni non consone, ha tenuto dei comportamenti certamente discutibili (…) soprattutto per avere promesso a un indagato che era in carcere da oltre centotrenta giorni, di età avanzata e in condizione di grave prostrazione psichica, che avrebbe espresso parere favorevole (…) e di avere invece assunto una posizione negativa senza però interrogare nuovamente lo stesso indagato, impedendogli, così, di fatto, di potersi ulteriormente difendere. È  mancato quel massimo di prudenza, misura e serietà che deve sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui». Cagliari si ammazzò in carcere, per chi non lo ricordasse: dopo che De Pasquale gli aveva pronmesso la liberazione e invece se n’era partito per le ferie estive, fra Capo Peloro e Punta Faro, Sicilia orientale. Poi via, verso nuovi insuccessi. Tipo quello di ieri

 

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Una sconfitta per tutti **

del 26 febbraio 2012 di Stefano Folli

 

Ieri la città di Milano ci ha offerto una fotografia singolare ma molto pertinente della realtà italiana. Da un lato, l’istantanea inquadrava il presente: il premier Mario Monti alla Bocconi, gli applausi dei colleghi di università all’uomo che ha restaurato la credibilità del Paese. Dall’altro, l’obiettivo catturava un segmento di passato. Sono trascorsi meno di quattro mesi da quando Silvio Berlusconi ha lasciato Palazzo Chigi, ma sembra un tempo remoto.

All’improvviso le polemiche sulla sentenza Mills, la sentenza che ha chiuso con la prescrizione uno dei processi più lenti, farraginosi e controversi tra quelli che interessano l’ex premier, hanno ripiombato il paese nel tempo che fu.

Per un attimo tutti si sono ricordati qual era il tono e il contenuto del dibattito pubblico ancora sul finire dell’anno scorso, mentre la speculazione finanziaria si accaniva sull’Italia. E per qualche ora siamo tutti tornati all’antico. L’epilogo del processo Mills ha riproposto tutti gli stereotipi e i pregiudizi dei due partiti pro e contro Berlusconi. Una contesa lunare con il sapore ormai fastidioso del «déjà vu». Tutti aggrappati alla propria porzione di verità.

Perchè è vero che questa vicenda giudiziaria ha autorizzato nel tempo i sospetti di accanimento, visto che la prescrizione era ormai assodata, e può darsi che le prove dell’accusa non fossero di granito. Ma è altrettanto vero che intorno al processo Mills si sono esercitati negli ultimi anni i migliori cervelli del «diritto creativo». È stato un braccio di ferro estenuante fra le leggi “”ad personam”” varate dalla maggioranza berlusconiana e i tentativi di eluderle a opera di alcuni magistrati. «La folle corsa dei pm» la definisce Alfano. Ma la corsa aveva diversi competitori: correvano il presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia, una parte del Parlamento. Avessero ragione o torto, non restava loro il tempo per fare altro, magari per governare.

Alla fine la stanchezza è diventata generale, così come il desiderio di non ripiombare in quell’atmosfera plumbea e sfibrata. Il duello rusticano aveva sfiancato il paese e nell’autunno dell’anno scorso tutti se ne sono resi conto con angoscia. E’ bene che la pagina sia stata voltata e la fotografia di ieri, scattata fra la Bocconi e il palazzo di Giustizia, dice più di mille parole.

Certo, questa prescrizione è una sconfitta per tutti. Perde la giustizia italiana, che non è riuscita a cavare un ragno dal buco. Perde Berlusconi, perchè non c’è stata alcuna assoluzione e oggi è più chiaro che la sua stagione si avvia comunque al tramonto. Soprattutto perdono gli italiani che avrebbero diritto a disporre di una macchina giudiziaria efficiente e rapida, dedita ai problemi della comunità nazionale oltre che a regolare i conti con il berlusconismo.

In ogni caso, è giusto guardare avanti. Se il governo e le forze politiche pensano davvero di riformare qualcosa nel sistema giudiziario, forse questo è il momento di farlo. Senza addurre altri alibi per mascherare le difficoltà. Quanto a Berlusconi e ai suoi collaboratori, è un po’ strano il «rammarico» espresso per la sentenza. In un primo tempo erano prevalsi i toni soddisfatti, ma quando è apparso chiaro che l’equazione prescrizione uguale assoluzione non reggeva, allora è emerso il rammarico. Eppure, se volesse, Berlusconi avrebbe una possibilità: rinunciare alla prescrizione e cercare un nuovo processo per essere assolto. Glielo ha suggerito, con malizia, Bersani e l’idea in sé è ragionevole. Ma ovviamente non accadrà. Ci vorrebbe ben altro coraggio morale e magari anche un’altra magistratura.

 

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Deporre le armi e voltare pagina *

del 26 febbraio 2012 di Mario Sechi

 

Tra poco più di un anno il Paese sarà chiamato al voto. Non è possibile immaginare uno scenario di fazioni armate fino ai denti con la magistratura che seleziona la classe dirigente – di destra e di sinistra – a colpi di inchieste. Adesso è ora di cambiare pagina.

 

 Duello nel Pacifico è un film del 1968, racconta la storia di due soldati, un americano e un giapponese, interpretati da Lee Marvin e Toshiro Mifune che in un’isola deserta ingaggiano una battaglia all’ultimo sangue per la sopravvivenza. Si tratta di una straordinaria pellicola diretta da John Boorman dove la guerra tra eserciti non si vede mai, ma la tensione totale, la differenza culturale tra i due contendenti e la distruzione irrazionale del finale sono raffigurati all’ennesima potenza. L’epilogo del processo Mills mi fa venire in mente quel film. Siamo di fronte a un finale di partita lungo diciotto lunghi anni, una battaglia che si protrae nonostante là fuori sia successo qualcosa, una «pax parlamentare» sia stata siglata e un «nuovo inizio» sia in qualche maniera cominciato. Deporre le armi – tutti – dare al Paese un nuovo volto, diverso dalla nostra storia di guelfi e ghibellini, è l’unica cosa saggia da fare. Giorgio apoletano l’ha capito per primo. Ma ci sono macchine infernali che continuano a viaggiare con il pilota automatico e non si fermano. Mesi e mesi fa, quando qualcuno pensava ancora di poter andare avanti così, scrissi che bisognava immaginare un «soft landing», un atterraggio morbido, per la storia berlusconiana, un’era segnata da una straordinaria intensità dello scontro politico. Non era la ricerca di una «exit strategy» per Berlusconi, ma un ragionamento sul sistema, dettato dalla consapevolezza dell’eccezionalità di quella storia e dei suoi protagonisti. È un discorso che non riguarda solo Berlusconi, ma gran parte della classe politica che in questi anni ha vissuto nei partiti pro o contro il Cavaliere. Se non si prende atto di questo scenario, se non si fa lo sforzo collettivo di fare un passo verso il futuro, avendo il coraggio di non voltarsi più indietro, anche il governo Monti rischia di essere un episodio in una storia crudele. Tra poco più di un anno il Paese sarà chiamato al voto. Non è possibile immaginare uno scenario di fazioni armate fino ai denti con la magistratura che seleziona la classe dirigente – di destra e di sinistra – a colpi di inchieste. È giunta l’ora di sotterrare l’ascia, accendere il calumet della pace e voltare pagina.

 

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Berlusconi sempre assolto? Sì, ma col trucco *

del 26 febbraio 2012 di Peter Gomez e Antonella Mascali

 

Le motivazioni della Cassazione sulla sentenza Mills: “”Fu corrotto per proteggere il Cavaliere””. Le testimonianze reticenti del legale inglese, secondo i giudici, sono state determinanti per l’assoluzione del Cavaliere nel processo per le tangenti alla Guardia di finanza. Grazie alla quale lui ha potuto dipingersi come un “”perseguitato”” dalla giustizia

Riproponiamo l’articolo di Peter Gomez e Antonella Mascali, pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 22 aprile 2010, sulle motivazioni della sentenza di Cassazione che ha mandato prescritto l’avvocato David Mills dall’accusa di essere stato corrotto da Silvio Berlusconi. Le motivazioni spiegano che Mills ha effettivamente commesso il reato. E che Berlusconi ha spuntato un’assoluzione al processo per le tangenti alla Guardia di Finanza proprio grazie alle dichiarazioni reticenti del legale inglese.

E adesso “restituitemi l’onorabilità calpestata”: questo scriveva Silvio Berlusconi in una lettera al Corriere , il 21 ottobre del 2001, ottenendo prontamente le scuse di Massimo D’Alema. Due giorni prima i giudici della sesta sezione della Cassazione lo avevano assolto “per insufficienza probatoria” nel processo per le mazzette versate dalla Fininvest alla Guardia di Finanza. E quel verdetto era così diventato la prova del complotto. L’attuale capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, aveva chiesto una “commissione parlamentare sull’uso politico della giustizia”. L’avvocato Carlo Taormina, allora sottosegretario, aveva domandato “l’arresto dei pubblici ministeri”. Mentre Maurizio Gasparri, oggi capogruppo degli azzurri al Senato, con la consueta moderazione si era limitato a parlare di una sentenza che era la dimostrazione della “persecuzione giudiziaria                        del premier su cui bisognerà fare piena luce”.

Con le motivazioni della Cassazione che hanno mandato prescritto David Mills, la luce è finalmente arrivata. Il complotto c’era, ma non era stato ordito dai magistrati di Milano. Il presidente del Consiglio quella celebre assoluzione, trasformata nel leit motif di tante interviste e di tante campagne elettorale, se l’era infatti conquistata a suon di mazzette. Perché davvero l’avvocato inglese David Mills, testimone chiave nel processo per le tangenti versate dal Biscione alle Fiamme Gialle, è stato corrotto con 600 mila dollari. E la sua deposizione reticente è stata decisiva per far ottenere a Berlusconi la patente di perseguitato. A dirlo sono le sezioni unite della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza, depositate ieri, con cui il 25 febbraio hanno confermato la condanna di Mills al pagamento di 250 mila euro di risarcimento dei danni allo Stato e, per soli tre mesi, hanno considerato prescritto il reato da lui commesso.

Nel documento si spiega come “il fulcro della reticenza di Mills… s’incentra in definitiva nel fatto che egli aveva ricondotto solo genericamente a Fininvest, e non alla persona di Silvio Berlusconi, la proprietà delle società off shore” da lui create. E come questa bugia abbia avuto delle conseguenze importanti. I giudici del dibattimento Guardia di Finanza, si legge a pagina 27 delle motivazioni, erano infatti stati costretti “a procedere in via induttiva, con la conseguenza che proprio la carenza di prova certa sul punto aveva determinato, nel processo Arces ed altri (mazzette Fininvest, ndr), l’assoluzione di Silvio Berlusconi in secondo grado e, definitivamente, in sede di giudizio di Cassazione”.

La faccenda diventa più chiara se si va rileggere che cosa accadde. Berlusconi, allora accusato di quattro diverse tangenti alle fiamme gialle, insieme al direttore centrale dei servizi fiscali Fininvest Salvatore Sciascia (poi condannato e oggi nominato parlamentare), esce con le ossa rotte dal primo grado. In appello però c’è il primo colpo di scena. Grazie alla concessione delle attenuanti generiche il Cavaliere ottiene la prescrizione per tre capi d’imputazione e viene assolto ai sensi dell’articolo 530 secondo comma ( la vecchia insufficienza di prove), da un quarto. Quello che riguarda una bustarella versata da Sciascia a una pattuglia che stava indagando sulla reale proprietà di Telepiù, la prima pay tv italiana, fondata proprio da Berlusconi.

Quei soldi infatti erano sì stati allungati nel 1994 perchè gli investigatori chiudessero gli occhi. Ed era altrettanto certo che se l’indagine avesse dimostrato come Berlusconi, attraverso una complicata rete di società off shore e prestanome, controllava la maggioranza dell’emittente, per lui il rischio di essere sanzionato con la revoca delle concessioni di Canale 5, Italia 1, e Rete 4, sarebbe stato altissimo. Ma dopo aver ascoltato Mills ai giudici di appello era rimasto un’incertezza: la “fittizia” intestazione delle quote di Telepiù a Berlusconi per loro, non era dimostrata al 100 per cento. Nella pay tv erano infatti presenti pure altre soci e quindi, almeno in via d’ipotesi, anche loro e potevano avere l’interesse a un indagine poco approfondita. Nel dubbio era così scattata l’assoluzione che, a cascata, aveva portato la Cassazione a pronunciarsi allo stesso modo sulle altre tangenti.

Oggi però la motivazione delle sezioni unite sul caso Mills rimette le cose a posto. E ricorda pure come il premier, solito ripetere “sono sempre stato assolto”, in realtà si sia salvato grazie alla prescrizione dalla condanna per i 21 miliardi di lire versati estero su estero nel 1991 all’allora segretario del Psi, Bettino Craxi. In attesa della minacciata riforma della giustizia, un bello smacco per un leader politico che ancora lo scorso 9 dicembre, davanti all’assemblea del Ppe, spiegava così la sua fin qui fortunata parabola giudiziaria: “In Italia solo una parte dei giudici sta con la sinistra, mentre i giudici soprattutto del secondo e terzo livello sono giudici veri come negli altri Paesi”. Oggi i “giudici veri” si sono pronunciati. Il leader del Pdl è uno che l’ha fatta franca. Pagando, s’intende.

 

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E’ qui la festa? **

del 26 febbraio 2012 di Marco Travaglio

 

Solo un delinquente incallito, i suoi avvocati e i suoi complici potrebbero festeggiare una sentenza come quella emessa ieri dal Tribunale di Milano. Una sentenza che, tradotta in italiano, dice così: la prescrizione è scattata dieci giorni fa, grazie all’ultima disperata mossa perditempo degli on. avv. Ghedini e Longo (la ricusazione dei giudici), dunque non possiamo condannare B.; ma lo sappiamo tutti, visto che l’ha già stabilito la Cassazione, che nel 1999 l’avvocato Mills fu corrotto dalla Fininvest con 600 mila dollari nell’interesse di B., in cambio delle due false testimonianze con cui – come aveva lui stesso confidato al suo commercialista – l’aveva “salvato da un mare di guai”. Cioè gli aveva risparmiato la condanna per le tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza.

Condanna che avrebbe fatto di B. un pregiudicato già nel 2001, con devastanti effetti a catena: niente più attenuanti generiche negli altri processi, dunque niente prescrizione dimezzata, ergo una raffica di condanne che oggi farebbero di lui non un candidato al Quirinale, ma un detenuto o un latitante. E se, al netto della falsa testimonianza prezzolata di Mills sulle tangenti alla Gdf, B. sarebbe stato condannato in quel processo, al netto della legge ex Cirielli sarebbe stato condannato anche ieri per avere corrotto Mills. Così come Mills sarebbe stato condannato due anni fa per essere stato corrotto da B. (invece si salvò anche lui grazie alla prescrizione, scattata due mesi prima). Quando infatti fu commesso il reato, nel 1999, la prescrizione per la corruzione giudiziaria scattava dopo 15 anni: dunque il reato si estingueva nel 2014. Ma nel 2005, appena scoprì che la Procura di Milano l’aveva beccato, B. impose la legge ex Cirielli, che tagliava la prescrizione da 15 a 10 anni.

Così il reato si estingueva nel 2009. Per questo la Cassazione, nel febbraio 2010, ha dovuto dichiarare prescritto il reato a carico del corrotto Mills (pur condannandolo a risarcire lo Stato italiano). E per questo ieri il Tribunale ha dovuto fare altrettanto col corruttore B. Fra il calcolo della prescrizione proposto dal pm Fabio de Pasquale e quello suggerito da Ghedini e Longo, il Tribunale ha scelto quello degli avvocati: la miglior prova, l’ennesima, che il Tribunale di Milano non è infestato di assatanate toghe rosse. Anzi, visti i precedenti, se i giudici hanno un pregiudizio, è a favore di B. Il quale, per la sesta volta, incassa una prescrizione a Milano: le altre cinque accertarono che comprò Craxi con 23 miliardi di lire, comprò un giudice per fregarsi la Mondadori e taroccò tre volte i bilanci del gruppo per nascondere giganteschi fondi neri usati per comprare tutto e tutti.

Ora càpita di ascoltare Angelino Jolie, avvocato ripetente, che delira di “folle corsa del pm” (dopo 8 anni di processo!); l’incappucciato Cicchitto che vaneggia di “assoluzione”; e l’imputato impunito che si rammarica (“preferivo l’assoluzione”), ma s’è ben guardato dal rinunciare alla prescrizione per farsi giudicare nel merito. Gasparri, poveretto, vorrebbe cacciare De Pasquale perché ha cercato di non far scattare la prescrizione. Ecco: per lui il compito dei magistrati è assicurare la prescrizione a tutti. Se l’ignoranza si vendesse a chili, sarebbe miliardario.

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