Winner takes nothing
Ernest Hemingway
“A meno che non ti adatti o ti arrenda completamente, finirai col restare solo in questo mondo. Ma arrendendoti perdi la tua indipendenza di essere umano.” Per uno degli innumerevoli casi in cui la realtà trascende la fantasia, la più celebre affermazione di Sam Peckinpah suona come un epitaffio rivolto non solo alla sua filmografia, ma anche, anzitutto, alla sua indomabile personalità di anarchico, di indefesso outsider sul quale – come sempre accade discutendo di figure controverse o polemiche – si può dire di tutto e l’opposto di tutto. E se ne continua a dire a trent’anni di distanza dalla sua scomparsa: al punto che non è molto facile, ed anzi piuttosto ostico, scegliere lo sguardo da adottare, e quale scartare tra i molteplici che nell’establishment cinematografico americano ne avevano sancito la più scomoda interpretazione.
I fautori del cinema come arte prediligerebbero, va da sé, uno sguardo estetico, non necessariamente (come lo si potrebbe?) estetizzante. Ma ugualmente sarebbe un errore scindere tale aspetto dai troppi lati di una personalità refrattaria in tutto e per tutto. Ogni aspetto è complementare con l’altro, e ciò non può che riflettersi sulla politique che il regista di Fresno si era scelto, non tanto – o non soltanto – come uno sguardo sul mondo, quanto come una vera e propria filosofia di vita. Dopodiché, importa poco che Bloody Sam – il sanguinario Sam, ma pure il bastardo Sam, così lo chiamavano nell’ambiente – fosse un caratteraccio e un alcolizzato, un provocatore e un nichilista, un tormentato e un insofferente. Specie con i produttori, a causa dei quali numerosi suoi lavori uscivano sfigurati o peggio mutilati, oppure gli venivano del tutto tolti di mano (Cincinnati Kid, diretto da Norman Jewison, o con ancor più dispiacere L’imperatore del Nord, andato a Robert Aldrich). Importa poco che il rapporto di Peckinpah con gli interpreti non fosse dei più condiscendenti, e ancor meno facile fosse con le attrici, tanto da tacciare il suo cinema di misoginia. Né importa se la sua intera opera non fosse premiata da consensi, da parte della produzione o da certa parte del pubblico: oggi come allora, ciascuna pellicola anche minore di Peckinpah costituisce il tassello di un mosaico. Parti complementari di un identikit spiazzante.
E più che soffermarci su titoli cui la Hollywood che lo detestava – ricambiata – deve più di quanto non sia mai stata disposta a riconoscere, vale la pena sorridere con tenerezza, e memoria cinefila, di fronte al fotogramma de L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel che lo fotografa nelle vesti di un meccanico intento a leggere un contatore del gas, ma pure di stuntman e di screenplayer non accreditato. Proprio grazie a Siegel, del resto, il futuro Bloody Sam inizia la gavetta artistica, che annovera pure collaborazioni televisive. E sempre con tenerezza segnalarlo nei panni di un giornalista-biografo, in quel tardivo spaghetti-western firmato Monte Hellman ch’è Amore, piombo e furore. Due nomi, Siegel e Hellman, che hanno la loro importanza: come Peckinpah, figure di rilievo per il cinema statunitense anni Settanta, e accomunabili all’autore de Il mucchio selvaggio rispettivamente per l’eredità di vecchi capisaldi del cinema d’azione (insieme a John Huston e a Aldrich medesimo) consegnata alle generazioni più giovani, e per l’irrinunciabile preferenza verso le produzioni indipendenti. Ma in Peckinpah l’indipendenza autoriale ogni volta è indotta a scontrarsi coi dettami del system. Come forse solo, prima di lui, era toccato a Stroheim.
C’è, però, qualcosa di analogo tra il mitico Von e l’asperrimo Sam, che non concerne solo l’opzione verso toni narrativi secchi, crudeli, persino brutali, ma anche un eguale risultato di mise en scène e di direzione attoriale. Come le leggende e le bufale sulle rispettive discendenze genealogiche. Come l’amalgama tra finzione e realtà che entrambi i cineasti costantemente vivevano sul set: nel caso di Peckinpah, incalcolabili sono le sbronze o le botte con gli interpreti-feticcio, da James Coburn a Kris Kristofferson, da Emilio Fernández a Warren Oates.
Complementarietà, appunto. Lezione di vita e sguardo lucidamente testardo contro tutto quanto concerne il capitalismo, il viscido servilismo, la sopraffazione. E in generale il Potere, esecrabile e violento più degli antieroi straccioni verso i quali Peckinpah mostra simpatie senza riserve. E con lui lo spettatore, oggi come allora. Questa è la sua inestimabile lezione, amata o odiata che sia, ma egualmente seguita ed emulata. Non solo la pietra tombale di un genere – e di un cinema – destinato all’eclissi, come anni dopo solo Clint Eastwood ripeterà. Più che altro, la lezione di uno “stronzo con la bandana” capace di inattesi toni romantici à la Cable Hogue (non è un segreto la predilezione di Peckinpah per il Resnais di L’anno scorso a Marienbad), che rifiuta condizioni e convenzioni, ma nulla può contro un Destino che la personale scelta gli riserva (“Qualcuno deve pur tenere fermi i cavalli,” sospirava Junior Bonner). E condannato a sparire nel nulla come l’anacronistico mito di una leggenda già a sua volta anacronistica. La risata collettiva e liberatoria che oniricamente chiudeva Il mucchio selvaggio, la risata ebbra di fortunata felicità che chiudeva Getaway!, già si era d’altronde mutata nella risata infernale e folle, disperata e disperante, di La croce di ferro. Oggi, poi, non resta che la rivisitazione. Ma benché volgere lo sguardo a Peckinpah, e al suo mito attraverso la sua opera, non possa più essere come quarant’anni fa, quando moltissimi che oggi lo amano ancora non erano nati (compreso chi scrive), resta qualcosa che porteresti con te sulla Luna, perché lo porti dentro.