Un grande giornalista cesella il cammeo di un altro grande.
Ricciardetto, l’uomo che zittì i tromboni
Nacque nel 1893 ad Avellino in una famiglia non ricca, ma di agiata e colta borghesia che lo mandò a studiare Giurisprudenza a Napoli, dove si laureò nel 1920. Non volle fare l’avvocato. Preferì l’Amministrazione dello Stato dove entrò previo regolare concorso, prima al Ministero delle Colonie, poi alla Corte dei Conti e fu qui che fece tutta la sua carriera, fino a diventarne Presidente onorario. La sua passione, di cui dapprincipio un poco si vergognava trovandola alquanto incompatibile con la sua qualifica di magistrato, era però il giornalismo. Per questo firmò solo con le iniziali A. G. i primi articoli che scrisse su Il Mattino diretto allora da Scarfoglio. Ma smise quando, come funzionario del Ministero delle Colonie, fu trasferito in Libia, dove rimase alcuni anni, senza però contrarvi il «mal d’Africa», di cui tutti i frequentatori di quelle terre rimangono, o si dicono, afflitti. Al ritorno a Roma fu ripreso invece dal male del giornalismo di cui ricominciò a frequentare punti d’incontro e ritrovi e dove tornò a debuttare, coperto stavolta da un pseudonimo, come titolare di una rubrica di costume sul settimanale umoristico Marc’Aurelio, che non sfuggì all’attenzione del più grande «talent-scout» di tutti i tempi, Longanesi. Quando questi, che aveva voluto conoscerlo e aveva attentamente seguito le conversazioni al caffè «Aragno», fondò Omnibus, il primo rotocalco italiano rimasto per sempre l’insuperato modello di tutti gli altri, gli propose di punto in bianco la rubrica di politica estera. «Ma io – rispose esterrefatto il G. – di politica estera so ben poco». «Sì – replicò Longanesi – però sa spiegarla a coloro che sanno meno di lei, e che sono il novantanove per cento degl’Italiani, compresi i diplomatici». Così nacque «Ricciardetto», lo pseudonimo con cui il G. è passato alla storia del giornalismo, o meglio ci passerebbe se del giornalismo ci si decidesse a scrivere finalmente una storia. Eccettuato il soggiorno in Libia, il G. non aveva mai messo piede fuori d’Italia, ma nel chiuso della sua sedentaria vita aveva studiato le lingue straniere – specialmente il francese e l’inglese, ma abbastanza bene anche il tedesco – e, anche se non le parlava, le leggeva correttamente. Del saggismo politico, aveva i suoi modelli, specialmente americani, ed uno soprattutto, Walter Lipman, di cui lo affascinavano la semplicità e
altri libri il G. ha affidato il ricordo del proprio nome, ammesso che il proprio nome gli stesse, quando li compose, ancora a cuore: Quaesivi et non inveni, cercai e non trovai, e Inquietum est cor nostrum, che non ha bisogno – mi pare – di traduzione. Entrambi rivelano l’altra faccia del G., quella che gli disegnarono gli anni e le sofferenze. Il G. era stato uno degli uomini più «brillanti» della sua generazione: conversatore (in un napoletano illustre, da Palazzo, non da «basso») brioso, curioso di tutto e di tutti, sibarita nei suoi gusti, perfino un po’ snob. Frequentava il salotto più in vista di Roma, quello della principessa Colonna: non perché in quell’ambiente trovasse pane per i suoi raffinati denti, ma perché – confessava candidamente – «‘nu salotto come quello, pe’ ‘nu cafunciello d’Avellino come me, rappresenta ‘nu punto d’arrivo». Sapeva ridere di se stesso ma voleva essere solo lui a farlo perché la spregiudicatezza non gli vietava la suscettibilità tipica del signore meridionale, per di più magistrato. Gli anni e la salute ne distorsero completamente il carattere. Una sordità ribelle ad ogni rimedio lo isolò dagli amici togliendoli i suoi due più grandi piaceri: la conversazione e la musica; mentre un’artrosi, anch’essa ribelle a qualsiasi cura, lo riduceva in carrozzella, preda di atroci dolori. Rimasto sempre ostinatamente scapolo, non poteva contare che sulla devozione di una segretaria-governante che gli rimase fedele fino all’ultimo giorno. Fu allora che cercò consolazione nella fede. La cercò per l’unica strada che sapeva battere, e che alla fede aveva condotto Pascal, il suo autore preferito:
Corriere della Sera (5 agosto 2001)
Archivio Storico del Corriere – Montanelli-L’uomo che zittì i tromboni