“E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le “verità” della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti…”
FABRIZIO DE ANDRE’ , Canzone del maggio
“E se per sopravvivere
qualunque porcheria
lasciate che succeda
e dite ‘non è colpa mia,’
sorridete, gli spari sopra
sono per noi…”
VASCO ROSSI, Gli spari sopra
Condizioni atmosferiche sovente plumbee, un grigiore soffocante che avvolge dalla seconda metà degli anni Settanta in poi il clima cinico e sarcastico, ma anche grottesco e dissacratorio, della gloriosa e ormai vetusta “commedia all’italiana”, ben visualizzano la realtà nazionale del periodo, quel “paese reale” cui ciascuna delle pellicole di quel sottogenere – genere a tutto tondo, anzi – ha sempre fatto riferimento. Agli anni della contestazione generale, degli autunni caldi, degli scontri, delle stragi impunite, hanno ormai fatto seguito gli anni di piombo, delle azioni terroristiche, degli omicidi di magistrati, dei giornalisti gambizzati. Le istituzioni democratiche attraversano la loro fase più cupa (la “notte della Repubblica,” secondo una celebre definizione di Sergio Zavoli) e il “paese reale” è avvitato in una crisi senza precedenti. Le fazioni politiche più estreme portano l’attacco “al cuore dello Stato,” di lì a non molto si avranno il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro: la conferma dell’eliminazione quale univoco, indispensabile strumento di comodo nelle situazioni di tensione e disagio più imminenti. La sinistra parlamentare è obbligata a sostenere governi “di unità nazionale” pur non facendone parte, e la sua posizione di “non sfiducia” – imposta dagli eventi quale atto di responsabilità politica e di dissociazione dalla lotta armata – diventa agli occhi di molti una “non opposizione,” un appiattimento, addirittura un tradimento. Bersagli del terrorismo iniziano perciò ad essere anche sindacalisti e attivisti di sinistra. Nel Paese si diffondono paura, insicurezza e pessimismo, diffidenza tout court verso ogni forma di contestazione, paranoia sociale. Nel “paese reale” si opera una frattura ideologica tra i ceti medi, che si trincerano su posizioni conservatrici, e la sinistra storica, a sua volta abbandonata da un movimento giovanile che non vi si riconosce più e la scavalca, ponendosi su posizioni massimaliste e talora avventuriste.
L’Italia della seconda metà dei Settanta è dunque un paese lacerato da un’insicurezza di tipo economico (inflazione crescente, diminuzione dei posti di lavoro, disoccupazione giovanile) quanto ideologico, politico, etico, in cui i comuni valori di riferimento paiono ormai privi del proprio carattere di conforto normativo. Ad essi, fatalmente, si sostituiscono valori individualistici e “particulari,” tal
volta veri e propri disvalori elevati a moralia. Il “posto sicuro” – nella fattispecie nella terza e conclusiva fase della “commedia all’italiana,” quella del riflusso e conseguente amaro bilancio – diventa quindi scelta (oltreché ragione) di vita, per assicurarsi il quale tutto è lecito, dalla rinuncia alla dignità individuale al cambio senza problema alcuno di casacca ideologica, fino all’illecito, all’inciucio, magari consumato all’interno di consorterie esclusive nel nome d’una “fraternità” fra adepti che è l’opposto di quella solidarietà fra disgraziati poveri ma belli che rappresentava la cifra della commedia di un tempo. Commedia caratterizzata da teneri bulletti di periferia che vogliono fare gli americani, pusillanimi che tentano di sopravvivere come possono alle circostanze imposte da eventi più grandi di loro, ladruncoli improvvisati che sperano nel colpo gobbo, superficiali di bell’aspetto che elevano l’automobile a distintivo del proprio benessere, arrivisti cinici e sfortunati, emigranti che cercano la fortuna e se ne tornano con le pive nel sacco, frustrati che trovano nel sesso l’unica risposta alla loro grigia esistenza, straccioni divorati dalla brama di denaro, di successo, di potere, non più innocenti come nelle sceneggiature zavattiniane ma brutti, sporchi e cattivi.
Le inchieste insabbiate, le prove inquinate, l’informazione sempre meno libera, la sfiducia nello Stato, il senso d’una vulnerabilità tanto più spaventosa quanto più distanti e persino nemiche vengono percepite le istituzioni, generano fatalmente la chiusura in sé stessi, l’omertà, la giustizia personale. Prime strisce di televisione spazzatura e spettacoli di basso intrattenimento anche cinematografico s’insinuano nei palinsesti allo scopo di sedare l’inquietudine e costruire un clima di apparente tranquillità, puntando alla rimozione e, poco a poco, alla disaffezione, al disinteresse dei più verso il sociale, verso l’impegno e la vigilanza democratica che ciò comporta. La demonizzazione dei giovani in quanto fautori di un ordine differente e antitetico porta alla loro individuazione in termini di ostilità sociale, d’inimicizia a prescindere. Porta all’accettazione di angherie consumate nel segno dell’indifferenza e dell’insipienza burocratica sulla pelle dei deboli – angherie che gli ultimi “eroi” della commedia all’italiana subiscono senza alcuna ribellione, essendo parte di quel sistema e preferendolo ad eventuali altri (sulla cui maggiore giustizia non sono disposti a credere, e che d’altronde non sono in grado di concepire). Porta, in un Paese ove cresce la voglia di leggi eccezionali e di patiboli, perfetti esponenti della maggioranza silenziosa a far proprie tali istanze e ad applicarle. Arbitrariamente. Alla lettera.
Di tale tormentata e tormentosa temperie, pellicole quali Un borghese piccolo piccolo di Monicelli o Caro papà di Risi si pongono quali opere eponime. In un panorama produttivo che incoraggia la produzione di film “poliziotteschi” – firmati da registi oggi tornati di culto, quali Fernando Di Leo o Umberto Lenzi – con relativa pletora di sbirri spesso corrotti e comunque violenti quand’anche si battano contro il crimine (dando quasi sempre l’impressione di farlo in base a monomanie ed ossessioni personali più che per affermare il Diritto), un panorama in cui gli idealisti della precedente generazione hanno già cantato il proprio de profundis (si pensi a C’eravamo tanto amati di Scola), in cui i peggiori fantasmi della convulsione politica in atto hanno già avuto modo di manifestarsi (come in Cadaveri eccellenti di Rosi o in Todo Modo di Petri, ma prim’ancora ne L’udienza di Ferreri), e in cui i principi di base della famiglia e della sua integrità risultano messi sempre più in discussione, la commedia italiana si lascia alle spalle la sorridente quanto innocua perfidia di Amici miei e le problematiche di Caro Michele, entrambi di Monicelli, mostrando un’italianità tanto desolante quanto sgradevole, paranoica, cinica, reazionaria, al pari delle opere di denuncia o d’impegno civile girate nei medesimi anni con piglio anche più sostenuto che in passato.
Pure, ciò è avvertibile nelle commedie non esattamente d’autore, più schiettamente popolari e – come si suol dire – di grana grossa: l’incipit del modesto Ecco noi per esempio…di Sergio Corbucci, appunto, vede Renato Pozzetto, ingenuo giovanotto della provincia lombarda, spaesato e sprovveduto di fronte agli inevitabili tumulti e scompigli della grande città – dai cortei femministi ai violenti scontri con la polizia – che all’istante lo accolgono alla stazione di Milano e, seppur involontariamente, lo trascinano in quella che è la situazione all’ordine del giorno.
Il medio cittadino non può più godere della tranquillità, del benessere della quiete: nemmeno deambulare da un paese all’altro, o da una località all’altra, senza che il disordine lo accompagni. Al punto da seguirlo perfino dentro casa, o comunque entro quelle mura domestiche che in teoria dovrebbero salvaguardarlo: ne Il… Belpaese di Luciano Salce, ritornato a Milano dopo avere lavorato per anni a un pozzo petrolifero nel Golfo Persico, il povero Paolo Villaggio fatica un bel po’ prima di convincere del proprio effettivo rientro la famiglia, che temendo un’irruzione terroristica, ha installato una demenziale sequenza di allarmi e chiusure automatiche alla porta di casa, di fronte a cui l’occasionale Ulisse non sa come venirne a capo. Il clima di tensione e paranoia proprio della realtà di quegli anni, avvertibile in questo film in chiave satirica, giunge paradossalmente a rompere ogni barriera di frapposizione quando una colonia di giovani cosiddetti “alternativi,” addirittura, svaligia il negozio di orologi del protagonista.
Il pericolo incombe da qualunque parte ci si muova, e l’imminente agguato esce allo scoperto quando meno lo si aspetta: la commedia affronta tale ottica nella forma del genere episodico come in quello “corale,” benché in questo caso della coralità alla base delle pellicole “del ripensamento” non sembri esservi più traccia. La situazione si risolve in una concatenazione di quadretti a
incastro i cui personaggi sono uno, nessuno e centomila, chiusi in un’unica bottiglia nel mare magno dell’individualismo, dell’indifferenza, della paranoia, della nevrosi collettiva, dell’apparente benessere. Sicché l’impulso violento trova una risposta nella stessa frustrazione, nella medesima nevrosi: l’insostenibile situazione accende liti, tradimenti, violenze che finiscono per diventare l’usualità più tipica. Ne L’ingorgo – Una storia impossibile… di Luigi Comencini, accesa radiografia somigliante a un reportage televisivo sulle reazioni e riflessioni di alcuni prigionieri del traffico durante un gigantesco imbottigliamento nei pressi di Roma, l’apice di quest’insostenibilità è raggiunto quando alcuni giovinastri, durante la notte, violentano a turno una giovane cantante, mentre i testimoni del fattaccio optano, concordi, per il silenzio assenso.
C’è poi chi come Vittorio Gassman, assuefatto dagli effetti del medium televisivo, non sembra curarsi di un effettivo delitto di fronte a casa, nell’episodio Cittadino esemplare, tratto da I nuovi mostri: in questo film, però, lo sguardo sulle piccole e grandi meschinità dell’italiano medio rimane quasi sempre in superficie, le situazioni appaiono gratuite e paradossali, con punte eccessive di un cinismo mai troppo esorcizzato. Qui risiede l’inevitabile differenza tra il periodo delle ultime commedie all’italiana e quello meno plumbeo degli anni Sessanta. Nondimeno, alcuni segmenti giungono come sarcastiche trombe del giudizio, coerentemente al periodo sociale e politico in cui sono girati: si va dal Gassman che si finge addolorato di fronte ai reporter per la morte dell’odiata moglie (Sequestro di persona cara) al giovane terrorista Yorgo Voyagis, muto di bell’aspetto che intenerisce la hostess Ornella Muti, ci va a letto e le lascia come pegno d’amore un giradischi con dentro una bomba, regolata per esplodere sul prossimo volo di lei (Senza parole). Si avvertono perfino indicazioni su mostruosità possibili generate dal concetto di mercato, di cui a fare le spese è sempre e solo ciò che non ha mercato, come gli affetti (Pornodiva).
Non resta che guardarsi dalla minaccia, dalle intimidazioni, dalla presenza nemica (o sospetta tale) in chicchessia, come fa Renato Pozzetto – sindaco d’una cittadina assediata dalla delinquenza notturna – in Fico d’India di Steno, o il “terrunciello” Diego Abatantuono, lui medesimo un capobanda in primis alla ricerca della figlia di un ragioniere, ne Il ras del quartiere di Carlo Vanzina. Ciò, anche a costo d’incappare nell’errore involontario ma irreparabile: ancora, nell’episodio Autostop del succitato I nuovi mostri, convinto di aver abbordato una pericolosa evasa, il commesso viaggiatore Eros Pagni uccide a rivoltellate la giovane autostoppista Ornella Muti, che rifiuta le sue avances maschiliste.
Eppure, la tesi della giustizia a ogni costo, ciecamente assurta a norma di vita indispensabile in misura vieppiù insistente, è un altro tra i motivi ricorrenti nelle commedie del ripensamento della seconda metà degli anni Settanta: nello specifico, ciò che prevalentemente emerge è la convinzione di rendersi in primis garanti e fautori della giustizia, quando i suoi strumenti si rilevano inefficaci, la polizia brancola nel buio e la legge ha le mani legate. Ad accomunare opere siffatte non è solo la firma d’indiscutibili alfieri del genere in questione, quanto l’analoga, scomoda idea della giustizia personale, ostentata quale meta di fondo, quando la circostanza avversa e crudele intacca le maglie del benestare sino ad assorbirne gli emblemi (famiglia, focolare domestico, occupazione). Nel menzionato Un borghese piccolo piccolo, vedendosi uccidere durante una rapina il figlio su cui ripone le speranze di una vita, il travet Alberto Sordi, alla soglia della pensione, si trasforma in un potenziale “giustiziere della notte,” la cui convinzione di proteggersi dall’oscuro clima di tensione, lo induce a non riuscire più a liberarsi di quella sete di vendetta a ogni costo che anima il suo nuovo, occasionale ruolo. In un altro apologo sulla violenza privata, Il giocattolo di Giuliano Montaldo, vistosi rapinato e ferito accidentalmente in un supermarket, il portavalori Nino Manfredi deve decidere se imparare l’uso della pistola (da cui l’ironico titolo) o rinunciare al lavoro, e opta per la pistola.
In un clima di paura e paranoia condivise, dubitare di tutti è normale. Il tuo vicino di casa può essere un terrorista, e il terrorismo sembra avere la possibilità di colpire e nascondersi come un pesce nell’oceano. Pare persino, il terrorismo, opzione dotata di vere possibilità di sovvertire l’ordine sociale. Nei cinema nostrano dei primi anni Settanta ci si può ancora imbattere in qualche parodistica operazione sull’argomento, prima che s’impongano riflessioni più serie: in Vogliamo i colonnelli di Monicelli, tenuto a battesimo un governo ombra ed elaborato un piano eversivo, l’onorevole missino Ugo Tognazzi tenta il colpo di stato ma non ne imbrocca una, tutto gli va storto e l’unico risultato che ottiene è di suscitare il “golpe bianco” d’un partito avverso e la svolta repressiva che ne segue.
La mentalità è mutata quanto i segni d’una teorica tranquillità, i segni di un ordine naturale condiviso: da esterna, la guerra si spinge dentro casa, si fa motivo di conflitto tra padri e figli. In Caro papà di Risi, nel pieno degli anni di piombo, il capitano d’industria Vittorio Gassman scopre che il figlio non solo simpatizza per i terroristi, ma è anche coinvolto nella preparazione di un attentato: e il bersaglio – quasi fosse una sorta di congiura – è proprio il protagonista, elevato a novello Giulio Cesare.
A rifletterci, il segmento L’educazione sentimentale, nel film I mostri dello stesso regista, non aveva anticipato i tempi, mostrando come l’opinabile catechismo di un cinico e disonesto Tognazzi verso il figlioletto si ritorcesse grottescamente verso il genitore? Allo stesso modo,
se tale “educazione” si ritrova in Un borghese piccolo piccolo da parte del travet nei confronti del figlio ragioniere, identicamente trasposta senza che nulla sia cambiato a distanza di anni, non è errato supporre che il climax violento e sanguinario nel frattempo instauratosi altro non sia che un prezzo da pagare al ripudio del Sociale, all’incapacità di concepirsi come parti di un tutto collettivo. La condanna ad essere mine vaganti, anonime gocce nel turbinoso fiume di veleno che assedia la società e fomenta esso stesso tensione e violenza.
Quanto all’informazione, crescono le tecniche di manipolazione proporzionalmente alle sue rivoluzionarie possibilità di cambiamento sociale. Si cerca una stupefazione permanente a base di scoop in serie. Ne Il mostro, uno dei film meno felici di Luigi Zampa, senza misura né vergogna, la cronaca nera si fa persino strumento di crimine giornaliero, tale da rendere il clima sanguinario la più familiare delle quotidianità: è quanto accade al giornalista in crisi Johnny Dorelli che individua lo scoop della vita imbattendosi in un anonimo serial killer, il quale, prima di uccidere, lo avvisa tramite misteriosi biglietti. Quando la catena degli omicidi si allunga, e il protagonista sembra prendere gusto ai colpacci, la polizia inizia a insospettirsi. Pur entro modesti risultati, evidente è la polemica verso il sensazionalismo e il becerume che ne segue, potenziale nutrimento di altri crimini.
A ben guardare, già il cinema italiano d’impegno aveva mostrato con Sbatti il mostro in prima pagina, uno tra i lavori di Bellocchio più discussi all’uscita, come una campagna di disinformazione a mezzo stampa fosse in grado di strumentalizzare un episodio di violenza carnale sino a farne un caso politico. Pallida eco se ne avvertirà nella fantapolitica vicenda di Tre colonne in cronaca di Carlo Vanzina, girato in seguito. Protagonista di entrambi i film è non a caso Gian Maria Volonté (simbolo della produzione cinematografica militante e impegnata dei primi anni Settanta), nei panni del direttore di un quotidiano, ruolo già ricoperto nel film di Bellocchio. Il Nostro si trova a dover adottare metodi poco ortodossi per salvare il giornale dalla chiusura, voluta da un industriale lombardo truffaldino verso cui il giornale non è tenero.
In breve tempo, gli ultimi scampoli della cosiddetta commedia all’italiana devono fare i conti, e di conseguenza consegnare il testimone, a un cinema d’impegno civile che impone la trattazione di temi delicati e/o scomodi a un’attenzione e ad una serietà che non possono più essere dissimulate dall’ironia e neppure più soltanto dalla satira. L’allegra brigata dei Risi, dei Monicelli, dei Comencini o degli Scola, e di tutte le firme più o meno rilevanti del genere, sono obbligate a fare largo alle nuove leve: dai fratelli Bertolucci a Roberto Faenza, da Gianni Amelio a Marco Tullio Giordana, a Nanni Moretti.
Tra le navigate firme del panorama cinematografico italiano, Elio Petri e Francesco Rosi mostrano innegabile fedeltà al proprio stile nella gestione della tematica. In particolare Rosi, in Tre fratelli, sposa il disagio del periodo al disegno di tre personaggi (quelli rimarcati dal titolo) alle prese con le rispettive, differenti psicologie e vicissitudini. Tuttavia, la cronaca nera e la percezione continua di un malessere sono i denominatori comuni dei tre quadri: intrecciato a flashback alterni, ciascuno di essi ruota intorno alla scomparsa d’una civiltà, in parte, origine e base del costume attuale. Al punto che la società immediatamente seguente, avendo disconosciuto quella contadina, è arrivata a una sua allegorica soppressione. Volenti o nolenti, le origini dei protagonisti – di ritorno nel loro paese d’origine al Sud, dopo la morte della madre – devono confrontarsi con le prese di posizione loro imposte dai cambiamenti: il magistrato Philippe Noiret teme un attentato imminente; l’anarcoide Vittorio Mezzogiorno auspica una rivolta contro il malcostume italiano; l’apparentemente tranquillo Michele Placido è disposto a riconoscere l’uso della violenza nella lotta politica. Accomunano ciascuna vicenda le particolari visioni oniriche compiute da ognuno dei fratelli: fantasticherie che permettono ad essi di vivere un possibile sviluppo della propria esistenza.
Per contro, Petri preferisce giocare la carta dell’invettiva feroce e sarcastica, senza risparmiare stoccate al moloch ormai imperante e tiranno della tivù. In Buone notizie (o La personalità della vittima), lancinante apologo etico-politico e purtroppo l’ultimo film del regista, il medium televisivo viene visto all’origine della perdita di identità nella società contemporanea, tale ne è divenuto il peso da traslarsi in presenza irrinunciabile per l’individuo medio, quest’ultimo reso insensibile dal costante contatto quotidiano con immagini choc. A questa categoria appartiene il protagonista Giancarlo Giannini, per l’appunto un grigio e freddo funzionario della RAI, travet privo di nominativo tanto nulla è resa la sua identità, indifferente di fronte all’incessante sequela di orrori catodici, il quale non dà peso alle richieste di aiuto d’un amico che teme di essere ucciso. Anche qui la tensione drammatica che si respira è quella di un Paese calato in un allarmismo insostenibile, e conferisce alla vicenda un risvolto thriller[1] tanto scombinato da essere volutamente posticcio, inverosimile come gli allegorici elementi che arredano il film, le montagne di spazzatura ovunque che testimoniano d’un disordine apocalittico. Anche in questo caso, facile preda della paranoia incombente, il cittadino medio è obbligato a guardarsi intorno, ma la sua anima è tanto imbevuta d’indifferenza e nichilismo da smarrire la chiave dell’enigma. Una volta che l’amico viene effettivamente trovato morto, in circostanze al contempo assurde e paradossali, il funzionario scopre i tanti (troppi) scheletri nascosti nell’armadio a sua insaputa, ma troppo tardi, senza più la possibilità di trovare una risposta e un significato, essendo diventato lui stesso il piccolissimo tassello di un rebus indecifrabile.
Il fatto che la tensione abbia ormai reso indistinguibile i poli da annullare qualsiasi barriera di frapposizione, lo dimostrano due opere quali La caduta degli angeli ribelli di Giordana e La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci. Il primo è interpretabile come l’ideale continuum di un dittico inaugurato col folgorante Maledetti vi amerò (radiografia disperata, velata d’ironia dissacratoria, sul bilancio d’una generazione disillusa dalla caduta degli ideali e segnata dal periodo post-Moro). In questo capitolo secondo, però, l’autore costruisce un melodramma che filtra la buia attualità del periodo attraverso una serie di variegati echi (letterari, figurativi, musicali): il terrorismo è ostentato come il sogno proibito di un’altolocata sotto shock, Clio Goldsmith, amante del brigatista in profonda crisi Vittorio Mezzogiorno, anch’egli di estrazione borghese. Benché questi sia condannato a morte dai suoi stessi compagni di lotta, è proprio la giovane a causarne la morte, dopo una convivenza all’insegna della paura.
Nel secondo, un industriale caseario (un Tognazzi che sapientemente sottolinea il passaggio dalla commedia dei tempi andati al cinema della riflessione), una volta appreso che suo figlio, sequestrato da rapitori, è stato ucciso, preferisce non divulgare la notizia e investire nella propria azienda il denaro accumulato per il riscatto. Troppo tardi si rende conto che la sua “truffa,” nel frattempo rivoltataglisi contro, non è che l’obiettivo d’un disegno altrui: nella fattispecie, architettato dal figlio vivo e vegeto e dalla di lui fidanzata. Qui, l’aspra riflessione sul rapporto tra padri e figli si affianca a una lucida rappresentazione di certa meschina borghesia italiana, disposta a tutto pur di stare a galla in tempi che si stanno rivelando difficili.
Un vero e proprio conflitto interno d’idee e sentimenti, invece, è al centro di Colpire al cuore di Amelio. La relazione tra Jean-Louis Trintignant, docente universitario amico di brigatisti, e il figlio Fausto Rossi si compromette irrimediabilmente quando il giovane – forse per mancato appagamento d’affetto del genitore nei suoi confronti – racconta le frequentazioni del padre ai carabinieri, prima di pedinarlo di nascosto fotografandolo in compagnia d’una presunta terrorista (la Laura Morante pure interprete del film di Bertolucci), e infine denunciare entrambi alla polizia, causando arresti privi di fondamento che lo trasformano in un piccolo mostro. Filtrate nel quotidiano, la caduta delle certezze e l’ansia spasmodica di verità, entro una realtà in cui tutti sono vittime di un fenomeno più grande di loro, portano ad accreditare come attendibili i più inattendibili figuri (e il “caso Tortora” ha luogo nello stesso anno d’uscita del film).
Nel corso degli anni Ottanta, un terrorismo che si ritiene debellato si fa pretesto per apologhi a incastro, costituiti da brevi quadri o fugaci scorci in funzione di tasselli, come i personaggi di volta in volta al centro di ognuno. Memore con molte probabilità della corrente cinematografica tedesca, in particolare gettando uno sguardo a Anni di piombo di Margarethe von Trotta, Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci è un tentativo di trattare questo tema senza schematismi ideologici o banalità documentaristiche, giacché la vicenda di una brigatista (Lina Sastri), di origini alto-borghesi, s’intreccia con quella di altre sei figure femminili: dall’anziana nurse (Alida Valli) alla madre (Rossana Podestà) della protagonista, alla sorella (Giulia Boschi) del complice ucciso dalla giovane, via via includendo la madre di quest’ultimo (Lea Massari), sino al giudice (Mariangela Melato) che condannerà la terrorista.
Persino in La messa è finita di Moretti – la cui struttura narrativa, riguardante la sconfitta di una realtà generazionale precocemente mutata, per alcuni versi somiglia al citato Maledetti vi amerò – fa capolino un esponente della lotta armata (un Vincenzo Salemme ancora lontano dalle esperienze di cabaret) nei guai con la giustizia, che il parroco don Giulio – interpretato dallo stesso regista – cerca di redimere, essendo stato suo vecchio compagno negli anni della contestazione. Tuttavia, il punto di rottura è ormai troppo superato per sperare in una soluzione possibile: non si rimedia a sbagli dovuti alle contraddizioni di un’utopia rivoluzionaria, anche se la posta in gioco (mancata) fosse, com’era, un cambiamento in meglio del mondo. Meno che mai concepibile lavare le colpe degli altri, sperando nel loro pentimento: quando il giovane brigatista, rilasciato dalla polizia per mancanza di prove, si riavvicina al sacerdote, per tutta risposta don Giulio gli chiude in faccia la finestra del confessionale.
Fedele a stilemi cinematografici che collimano con le proprie idee politiche, al termine degli anni Ottanta, nella metaforica quanto sconsolata invettiva di Palombella rossa, Moretti in primis s’interroga sulla perdita d’una memoria generazionale che coincide con lo smarrimento completo degli ideali (politici ed etici) e dei loro scopi e principi, cui fanno seguito i dubbi circa la crisi del partito comunista nel documentario La cosa, radiografia su aspetti e cause determinanti la fine del PCI, che immortala alcuni momenti di un dibattito politico ripreso in otto sezioni sparse per l’Italia, lanciato sulla proposta di Achille Occhetto di una possibile rifondazione del partito.
Tale operazione richiama l’esperimento altrove condotto, poco più d’un decennio prima, da Roberto Faenza con Forza Italia!, graffiante pamphlet documentaristico che ripercorre trent’anni di potere democristiano, intessuto di scene e dichiarazioni registrate durante congressi politici, comizi e sedi istituzionali, che ne smascherano l’incongruenza, la contraddittorietà, la falsità o la tragica quanto involontaria comicità. Film di montaggio originale per i tempi (si pensi a quanto li precorra il titolo), che mette in campo una salutare ferocia contro la politica imperante nel Paese.
Nella finzione quanto “dal vivo,” insomma, sono soprattutto le firme del cinema nostrano di più notevole qualità a interrogarsi su origini e motivi che portano i due decenni in esame alla rottura, verso il punto del non ritorno. Alla metà dei Novanta peraltro c’è chi, peregrino, si ostina a cercare di comprendere in prima persona la rottura degli schemi (“Colpirne uno per educarne cento”), a costo di restarne turbato per sempre. Il Nanni Moretti de La seconda volta di Mimmo Calopresti è un docente universitario vittima di un agguato terrorista, spinto dalle conseguenze del caso a un riavvicinamento e conseguente chiarificazione con la carnefice Valeria Bruni Tedeschi; quest’ultima, condannata alla libertà vigilata, si sacrifica riconsegnandosi alla normale pena detentiva dopo avere trasgredito la concessione a favore del chiarimento con la sua ex-vittima.
Nondimeno, dagli anni Ottanta in poi, almeno sugli schermi, il terrorismo sarà condannato al pietoso velo della mentalità italiana più indifferente e assuefatta dalla televisione, senza lasciare più una traccia d’impegno al contempo scomodo e coraggioso come negli anni passati, abbandonandosi a una memoria man mano livida. Non ne rimane che qualche barlume o pallido richiamo che sa più di pretesto, sfiorato quando non assembrato con altri spunti, in commedie generazionali dirette dalle nuove leve della commedia italiana emerse nel frattempo (da segnalare, almeno, il limitato margine che dell’argomento offre il Francesco Nuti di Donne con le gonne). In alcuni casi, il delinquente – brigatista o sequestratore che sia – è perfino al centro d’improbabili redenzioni per qualunquistici quanto auto-referenziali deliri d’onnipotenza (come nel caso di Joan Lui di Celentano).
La figura del terrorista o presunto tale si fa pure protagonista di bizzarre, picaresche vicende, talora realmente accadute (Spaghetti House di Giulio Paradisi), talaltra seguendo percorsi on the road che in qualche caso diventano occasione di conoscenza reciproca tra aguzzino ed ostaggio, prima di sfociare in un’amicizia (Figli di Annibale di Davide Ferrario o Così è la vita del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo in collaborazione con Massimo Venier), e in qualche altro trasmutano in fugaci quanto stravaganti avventure sentimentali: in Viola bacia tutti di Giovanni Veronesi, addirittura, detta relazione amorosa è triplice, giacché coinvolge l’evasa Asia Argento e i tre amici in viaggio Massimo Ceccherini, Valerio Mastandrea e Rocco Papaleo, incontrati per caso durante la fuga.
Da par suo, la commedia italiana di poche pretese si limita a prendere il personaggio del terrorista inserendolo di peso nella farsa ridanciana (il personaggio di Stefania Sandrelli, dinamitarda in Bello mio, bellezza mia di Corbucci, per esempio). Nel cinema italiano impegnato fine anni Ottanta, per quanto ambizioso, qualche non trascurabile spunto sull’argomento – quasi fosse un ritorno su temi già affrontati in precedenza – viene da pellicole come Appuntamento a Liverpool di Marco Tullio Giordana, dove una giovane Isabella Ferrari identifica l’hooligan inglese che tre anni prima le uccise il padre, e anziché denunciarlo lo segue sino a Liverpool, chissà se per vendicarsi.
Ancora, in Sud di Gabriele Salvatores, quattro disoccupati occupano un seggio elettorale del Meridione per protestare contro i brogli e i maneggi del boss locale. La rivolta, però, trasforma i “resistenti” in sequestratori, ché nel seggio s’imbattono casualmente nella figlia del politico corrotto e nel fidanzato di lei, tenendoli come ostaggi. Ne segue un braccio di ferro tra le forze dell’ordine e i dimostranti, che coinvolge l’opinione pubblica e dove non mancano neppure i mass-media col loro bagaglio di cinismo, superficialità e mistificazione. In entrambi i casi, tuttavia, non è il terrorismo a fungere da tema di fondo, e i film – al pari di enumerabili altri esempi – più semplicemente rientrano nel cinema di denuncia.
Al clima di tensione in oggetto, il panorama cinematografico italiano sembra ormai guardare attraverso allegoriche letture, come succede in Una storia semplice di Emidio Greco: qui, l’aria che si respira è molto simile a quella dell’impegno civile anni Settanta, sì da apparirne una variante riveduta e aggiornata, e il clima asfittico, pessimista e metafisico (proprio di cineasti quale Petri) è immerso entro risvolti thriller limitati all’allusione e all’allegoria. Le indagini del brigadiere Ricky Tognazzi sul presunto omicidio di un diplomatico si concludono in niente, benché un frammento di verità sopravvenga in extremis prima di scomparire di nuovo nel nulla.
In un paese ove i gusti cinematografici sono mutati e la televisione più di consumo sembra avere accuratamente “lavato” (e riplasmato) la mentalità di molti spettatori, c’è chi avanza ancora qualche dubbio su alcuni tra i casi di cronaca più sconvolgenti dei decenni trascorsi e realizza opere-inchiesta di taglio semidocumentaristico e piglio realista, dal Marco Risi de Il muro di gomma, sulla tragedia di Ustica e le sue vergogne di Stato, al Giordana di Pasolini – Un delitto italiano. In particolare, in quest’avvincente e rigorosa ricostruzione del processo per l’omicidio del “poeta corsaro,” che poco a poco si trasforma nell’accorato omaggio a un maestro di cinema e di vita, si vuole dimostrare come il delitto non potesse essere compiuto da un unico individuo, ma fosse in realtà al centro di una più articolata macchinazione.
La strage della stazione di Bologna è al centro di un mediometraggio diretto da Massimo Martelli dal titolo fin troppo emblematico, Per non dimenticare, interpretato da nomi più o meno noti del grande e piccolo schermo, ciascuno dei quali presta il proprio volto alle vittime del tragico episodio negli ultimi istanti della loro esistenza, prima dell’imminente strage. Pe
rsino in una moderna favola a episodi firmata da Sandro Baldoni, Strane storie – Racconti di fine secolo, la drammaticità dell’evento arriva come un’eloquente metafora: il treno su cui viaggiano i passeggeri, a loro volta protagonisti dei tre segmenti che compongono il film, si arresta improvviso di fronte ai rottami dell’Italicus, il treno oggetto di un attentato terrorista che giace lungo un binario morto. Ciò catapulta i personaggi all’interno di un’allegorica, nuova “strana storia,” ma la tragicità dell’istante, giungendo inattesa, coglie impreparati loro e lo spettatore: non tanto riportandoli alla realtà, quanto ricollegando una finzione vero-finta a una quotidianità paradossalmente anche più inverosimile. Non occorrono parole per sottolineare ulteriormente quanto mostrano gli ultimi fotogrammi: stupore e silenzio sono le uniche risposte appropriate.
Più recentemente, anche il caso Moro – già al centro di una pellicola didattica di Giuseppe Ferrara, didascalica come tutte quelle dell’autore – è tornato motivo di gestazione per Buongiorno, notte di Bellocchio, che nel ripercorrere gli ultimi giorni del presidente del consiglio nazionale della DC, opta per l’apologo onirico e segue il percorso della re-interpretazione fantastica: nell’epilogo, il politico (Roberto Herlitzka) è rilasciato, libero di camminare per le strade solo perché si tratta della visione di una delle sue aguzzine (Maya Sansa), la più sensibile del gruppo di sequestratori.
Nel più odierno cinema d’impegno civile di casa nostra, semmai, si abbraccia la trattazione di più delicati spunti, quale la pedofilia entro contesti religiosi (Pianese Nunzio 14 anni a maggio di Antonio Capuano), ma non solo. Quanto alla cronaca nera, gli episodi più tristemente noti della storia italiana, nonché lo stesso personaggio del brigatista, sono ormai oggetto di rivisitazioni televisive i cui risultati qualitativi non sempre si rivelano all’altezza dei lodevoli propositi (tra le più dignitose, si segnala almeno la fiction che vede al centro il “caso della Uno Bianca,” diretta da Michele Soavi). E se qualche notevole esempio arriva ancora da pellicole come La mia generazione di Wilma Labate, è però nel monumentale La meglio gioventù di Giordana – all’origine concepito come format televisivo – che la radiografia di cui il Paese è protagonista, lungo un trentennio che dal Sessantotto arriva ai giorni nostri e ovviamente annovera gli “anni di piombo,” si sposa a un desiderio di rifare il punto.
Legato alla voglia d’un cinema d’impegno ormai dissoltosi, peraltro aggiornato agli schemi odierni, l’affresco sembra l’ideale proseguimento di Novecento, quasi ripartendo dal punto in cui terminava il kolossal di Bertolucci (che pure documentava l’Italia nella prima metà dell’ultimo secolo), giungendo come una sorta d’invito retrodatato, testimonianza d’una nazione in quella che è stata la sua fase più critica, una fase per certi versi non conclusa né ancora risolta.
[1] Altro stilema ricorrente nel cinema italiano di denuncia, nella fattispecie anni Settanta, che si ritrova puntuale in operazioni affini.