Ho avuto il piacere e l’onore di poter intervistare il professor Amartya Sen, premio Nobel l’economia del 1998 e tra i massimi economisti del mondo. L’incontro con Sen è avvenuto a Bologna dopo una sua lectio magistralis organizzata da Coop Adriatica.
Parlare di Amartya Sen è difficile perché definirlo solo come il massimo esperto di economia del benessere è quanto mai riduttivo: il suo contributo al sapere universale è infatti così vasto da aver abbracciare non solo l’economia nella sua accezione più alta ma anche la filosofia, la sociologia e non da ultima l’ecologia. Di nazionalità indiana, è attualmente professore all’università di Harvard e le sue teorie sembrano oggi le più adatte ad analizzare e descrivere i tempi di grave crisi economica che stiamo vivendo.
Rendendo il fattore umano centrale rispetto ai fenomeni economici, Sen ha dato un contributo principe all’analisi delle disuguaglianze e della globalizzazione. Egli parte da un esame critico dell’economia del benessere, che lo porta fra l’altro alla definizione di un indice di povertà che viene largamente usato in letteratura : l’HDI, Human Development Index, ossia il coefficiente di misurazione del grado di sviluppo. Questo introduce nuovi parametri per valutare la reale ricchezza di un paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, distribuzione del reddito.
La Human development Theory di Sen è una sintesi di altre teorie come lo sviluppo sostenibile, l’economia del benessere e l’ecologia economica.
Il professor Sen ha così sviluppato così un approccio radicalmente nuovo nella teoria dell’eguaglianza e delle libertà, infatti la discussione sulla disugeglianza, viene letta in una nuova direzione che si contrappone a quelle tradizionali e prevalenti.
Al di là della forte e a volte ridondante retorica dell’uguaglianza, rimane la convinzione che gli individui siano del tutto diversi gli uni dagli altri e che dunque, il pur ambizioso progetto egualitario, debba muoversi sulla base di una preesistente e robusta disuguaglianza.
Sen è convinto che la misurazione della disuguaglianza dipenda dalla variabile focale (felicità, reddito, ricchezza, ecc) attraverso cui si fanno i confronti: la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla. La prima conseguenza di ciò sta nel fatto che, se tutte le persone fossero identiche, l’eguaglianza in una sfera (ad esempio nelle opportunità o nel reddito) tenderebbe ad essere coerente con eguaglianze di altre sfere (ad esempio, l’abilità di funzionare). Ma poiché le persone non sono affatto identiche, ma anzi vige un’assoluta “”diversità umana””, ne segue che l’eguaglianza in una sfera tende a coesistere con disuguaglianze in altre sfere: così, ad esempio, redditi uguali possono coesistere con una forte disuguaglianza nell’abilità di fare ciò che si ritiene importante (un sano e un malato, pur avendo lo stesso reddito, non possono fare le stesse cose), ecc. La seconda conseguenza fondamentale
scaturente dal fatto che la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla sta nel fatto che la disputa non si innesta tanto fra egualitari e anti-egualitari, giacché tutte le più importanti teorie etiche degli assetti sociali sono comunque favorevoli alla “”eguaglianza di qualche cosa””. Una prova di ciò sta nel fatto che anche le teorie considerate tradizionalmente come anti-egualitarie finiscono poi per essere egualitarie nei termini di qualche altro “”punto focale””. Interrogarsi sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana che debbono essere resi eguali.
L’eguaglianza di una determinata società dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being generale, ossia non ristretto entri parametri strumentali o economici. Sen propone una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà ; nel far ciò si riallaccia al concetto aristotelico dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col termine fulfillment, che vuol dire realizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella immagine di una “”vita fiorente”” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità.
L’approccio di Sen ha convinto molti studiosi a considerare i tradizionali indicatori monetari del benessere (indici di povertà e diseguaglianza basati sul reddito o sulla spesa per consumi) come misure incomplete e parziali della qualità della vita di un individuo.
Professor Sen, Lei ha dedicato ampi studi all’ineguaglianza economica, un fenomeno nel momento storico che stiamo vivendo sembra acuirsi sempre di più in tutto il pianeta, ma chi sta diventando più forte e chi più debole con la crisi mondiale?
Ci sono due gruppi di persone che stanno diventando più poveri: un gruppo vive prevalentemente in nazioni ricche come gli USA dove l’eccessi
va fiducia nell’economia di mercato ha visto la crisi erodere certezze fino a ieri date per scontate, in queste nazioni la smodata fiducia nel liberalismo ha visto un deficit di adeguamento interno all’economia di mercato, mentre il secondo gruppo vive in paesi finora in rapida crescita economica come la Cina e l’India, oppure nazioni già storicamente poverissime come ad esempio alcuni paesi africani dove la crisi attuale ha colpito i mercati. Quindi paradossalmente la crisi ha colpito gruppi di persone che vivono in paesi molto ricchi e molto poveri.
Si discute ogni giorno se la crisi sia finita o no, cosa ne pensa?
Forse per il mercato azionario la crisi è vicino alla fine, ma questo non assicura altri cali delle borse di tutto il mondo. Ma la disoccupazione continuerà a salire e in economie come quella americana dove non vi è una copertura sanitaria garantita vi saranno gravissimi problemi, anche in Europa dove per fortuna c’è un welfare state efficiente il numero dei disoccupati aumenterà.
Molte regioni del mondo, compresi i paesi africani e altre nazioni povere soffriranno ancora a lungo questa situazione .
All’interno dei singoli paesi il divario tra ricchi e poveri si sta allargano o riducendo?
Penso che le cose non siano cambiate molto a livello di economia planetaria. Guardando appunto all’economia mondiale alcuni paesi come Cina, India Brasile o Sudafrica sono cresciuti enormemente, ma escludendo questi colossi il divario si è ampliato. All’interno di singoli paesi che hanno sconosciuto una crescita del PIL a due cifre le differenze tra benestanti e poveri si sono ingigantite esponenzialmente.
L’Europa quale comportamento deve tenere in questo momento così critico?
Credo che la crisi venga da un fallimento filosofico nel capire che l’economia di mercato non è mai riuscita a creare un equilibrio in nazioni totalmente liberaliste, come diceva Adam Smith le economie di mercato hanno bisogno di altre istituzioni che funzionino. Negli USA dagli anni di Reagan vi è stata un’erosione costante a livello del controllo governativo sull’economia e questo è continuato anche nell’epoca di Clinton e in modo ancor più netto con George W. Bush. In Europa le cose non sono successe in modo così accentuato, ma penso che si dovrà aver paura di una scelta miope come quella statunitense, l’economia di mercato ha un potere straordinario di creazione di ricchezza ma da sola non può fare tutto: c’è bisogno di istituzioni, sanità pubblica, regolamentazione, di pensioni, di sussidi e di tanto altro.
Quindi senza escludere a priori il neoliberismo, Lei afferma che c’è bisogno di istituzioni che assicurino garanzie sociali, altrimenti vi sarebbe il rischio del crollo economico. E’ questa la sua analisi?
Sì, è parte di quello che sto affermando ma non solo. Dico anche che l’economia di mercato deve produrre il benessere, ma questo meccanismo può essere colpito da una mancanza di fiducia nell’economia. Guardiamo cosa è successo nelle istituzioni finanziarie, si sono concessi prestiti al di là delle reali possibilità e questi prestiti sono finiti in mercati che non potevano sostenere la situazione. Questo ha creato una condizione che ha minato la fiducia.
Attualmente non possiamo produrre abbastanza ricchezza, la soluzione sta nel cambiamento positivo delle aziende, ma ancor di più il compito di dare fiducia alle persone è degli Stati.
La crisi economica mondiale potrebbe portare a disordini sociali molto violenti?
Gli scontri che potrebbero avvenire sarebbero solo il termometro di una febbre molto virulenta, ma interrogarsi sugli scontri stessi e non sulla loro causa equivarrebbe a ignorare il problema stesso.
Ed è proprio il problema che deve essere risolto.
Lei ha sempre affermato che la misura dello sviluppo economico di un paese non deve essere solo il reddito ma la qualità della vita, come si misura questo parametro?
Ho passato metà della mia vita a lavorare queste misurazioni, ma i modelli matematici hanno dei difetti e non possono essere considerati assoluti, dobbiamo avere una visione d’insieme per capire se la qualità della vita sta migliorando o peggiorando.