Ottenere il divorzio non è facile e la custodia dei figli non è automatica. Per intimidire gli attivisti, ieri trentadue donne sono state arrestate davanti alla Corte rivoluzionaria di Teheran. Si erano radunate, in segno di solidarietà, all’apertura del processo per una manifestazione svoltasi nel giugno scorso nella Piazza Haft-e Tir. In quell’occasione uomini e donne erano stati dispersi dalla polizia che aveva arrestato una settantina di persone. In attesa del processo, gli arrestati erano stati rilasciati su cauzione. Tra loro un ex deputato riformista, Ali Akbar Mousavi Khoini, tornato in libertà dopo quattro mesi di dura detenzione. Ieri, all’uscita dal tribunale, le cinque donne a capo del movimento femminista sono state nuovamente arrestate e la stessa sorte è toccata alla loro avvocata Parvin Adalan che, come i colleghi, non ha potuto prendere visione degli atti prima dell’udienza ma era stata interrogata più volte dai servizi segreti.
Del collegio di difesa fanno parte Mohammad Sharif e Mohammad Ali Dadkha, membri del Centro per i diritti umani del Nobel per la pace Shirin Ebadi. Hanno dichiarato che, in un momento di grave crisi internazionale, le loro assistite sono accusate di «iniziative contro la sicurezza del Paese». Si tratta del solito pretesto che i falchi di Teheran usano per reprimere il dissenso
L’unico interlocutore dell’Occidente sul discorso dei diritti potrebbe essere il pragmatico Rafsanjani che, sconfitto nel ballottaggio del 2005 da Ahmadinejad, è tornato alla ribalta vincendo nelle elezioni del 15 dicembre la presidenza dell’Assemblea degli esperti. Pur di guadagnarsi il consenso della popolazione, Rafsanjani sarebbe disposto a tutto: ad accantonare il programma nucleare, come ha già dichiarato. Anche maggiori diritti, per le donne ma non solo, se l’Occidente glielo chiedesse in cambio del tanto desiderato sdoganamento dell’Iran. Dopotutto, il 3 dicembre il parlamento iraniano ha votato una legge per accorciare di un anno e mezzo il mandato di Ahmadinejad, che potrebbe terminare il prossimo febbraio. Il presidente non ha mantenuto le promesse elettorali – creare occupazione e distribuire la ricchezza petrolifera – e i suoi slogan hanno isolato il Paese. Errori che gli iraniani non perdonano. E Rafsanjani, più esperto e dalla retorica meno aggressiva, si prepara. A lui occorre tendere la mano. Chiedendogli di dimostrare di essere veramente moderato.