
Le donne, anche quando hanno acquisito un ruolo stabile nelle attività industriali, artigianali, nel commercio e nel terziario, lo hanno fatto partendo dal basso, dai ruoli meno retribuiti e più impegnativi, superando mille pregiudizi.
Domenica 12 novembre, nel Centro Culturale Via Vittorio Veneto di Fiorano Modenese, si è svolta la presentazione del libro ‘Il lavoro delle donne a Fiorano prima della ceramica. 1861/1961’, realizzato dall’Associazione Fiorano in Festa, edito da Artestampa Fioranese con il contributo delle Officine Vandelli. E’ il frutto della ricerca promossa dalle Pari Opportunità del Comune affidandola ad Alberto Venturi per l’associazione Lumen.
L’iniziativa è la prima del trittico ‘Donne protagoniste invisibili’, che prosegue al Circolo Nuraghe la sera dei 21 novembre, nell’ambito del Tè delle 5 di InArte, incontrando Roberta Pinelli, autrice del Dizionario bibliografico delle donne modenesi’, intervistata da Tina De Falco. La rassegna si conclude lunedì 27 novembre incontrando la Prof.ssa Antonia Bertoni su ‘Le donne nella Resistenza’.
Come ha osservato la fotoreporter e scrittrice Annalisa Vandelli nel suo intervento, ‘protagoniste invisibili’ è un ossimoro solo apparentemente perché può essere letto come protagoniste-in, dentro. Sono, anche se non appaiono.
Non appaiono prima di tutto nella nostra mente. Domandando ai Fioranesi quali fossero i lavori delle donne prima che arrivasse la ceramica ad assorbire la gran parte della mano d’opera femminile, lasciando inoperose le macchine da magliaia, deserte le aie e le campagne, la risposta è sempre la stessa: in fornace alla Carani, in maglificio da Cuoghi o da Casali, in risaia nei mesi estivi. Nessuno pensa alle massaie, che soprattutto se contadine, svolgevano mille mansioni, nei campi, nella stalla, nell’orto, in casa. Ma nessuno pensa nemmeno a sarte, filatrici, tessitrici, domestiche, stiratrici, lavandaie, maestre elementari, bottegaie, levatrici, postine, che comparivano nelle statistiche d’inizio ‘900.
La storia di Fiorano Modenese è quasi totalmente legata al lavoro dei campi e non stupisce perciò che sia una storia al maschile, con le donne nel ruolo di ‘casalinghe’, senza peso sociale, né diritti o tutele, soprattutto nelle famiglie di mezzadri, formate da più nuclei con una rigida gerarchia e ruoli definiti. Peggio di loro stavano le famiglie dei camarant, quelli costretti al lavoro di braccianti a cottimo. In queste famiglie le donne avevano però un ruolo maggiore perché il loro lavoro era indispensabile per il sostentamento e si svolgeva fuori casa. Erano mondine, spigolatrici, fornaciaie, lavandaie. Sostituivano spesso gli uomini anche nelle attività più faticose come la battitura del granturco e il trasporto della paglia, perché venivano pagate meno.
Comunque le donne, anche quando hanno acquisito un ruolo stabile nelle attività industriali, artigianali, nel commercio e nel terziario, lo hanno fatto partendo dal basso, dai ruoli meno retribuiti e più impegnativi, superando mille pregiudizi. Ancora nel 1939 il capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio Ferdinando Loffredo scriveva: “La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito”. “La conseguenza dell’emancipazione culturale – anche nella cultura universitaria – porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei”. “Il lavoro femminile crea nel contempo due danni: la mascolinizzazione della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito”.