Bice propone ai lettori un florilegio degli articoli scritti da alcuni Maestri del giornalismo italiano.
Da come essi hanno descritto e interpretato l’avvenimento, emergono e ritornano alla luce pagine memorabili che narrano di eventi indimenticati e si scoprono, in altre pagine, avvenimenti ignorati o sepolti dalla coltre del tempo. Il tutto scritto con maestria inarrivabile.
In questo articolo pubblicato nel 1938 Corrado Alvaro descrive momenti di vita vissuta nell’Unione Sovietica.
A. B.
Poiché il vapore mi avrebbe aspettato, andai a vedere il mercatino. Si teneva in una piazza piena di sole, dove terminava l’abitato, sulla terra rossiccia. I contadini dei «kolhòs» vi avevano portati i generi tratti dal piccolo lembo di terra concesso loro ai margini dei campi collettivi, e sedevano in terra davanti alle loro ceste. Qualcuno dei contadini, come si chiamano, individuali, stavano grevi, tristi e solenni, come noi abbiamo veduto spesso in certe scene dei balletti russi. Tutt’insieme quell’accolta di gente dava l’idea d’un tipo antico, ignaro, sopravvissuto, e le loro stesse merci parevano rinvenute in una vita profonda, appena scavata dalle rovine del turbine che aveva sconvolto la faccia d’un continente. Non si trovava pane, ma idromele, mirtilli, fragoloni, lamponi, cipolline, uova; e il gesto che nel contadino è tanto misuratore quando tratta la sua roba, qui era geloso come davanti a un miracolo d’abbondanza. In quel mucchio di superstiti e scaduti abiti popolari, ognuna di quelle merci splendeva come un tesoro, il bianco avorio delle uova, quello di porcellana delle cipolline, e il rosso vizzo da broccato antico dei lamponi, avevano la tenuità dei vecchi smalti. C’era un prete, in una tonaca con cui sembrava fuggito a un disastro, o tornato da un viaggio lungo, la gran barba incolta, e due occhi sempre fissi avanti. Un suono, quasi un tubare, mi fece scoprire in terra accosciato un tipo di tataro, piccolo come il seme d’una razza antica, mani piccine, piccoli piedi, e un viso di cera che mi guardò da un’immensità d’anni e di lontananza: giovane, forse, ma d’una vecchiaia di razza rattrappita come le mummie. Soffiava in una delle ocarine che vendeva, a forma di colomba, ma fatte bene, modellate con una mano che conosceva la morbidezza delle piume, la grevezza dei fianchi, il gonfio della gola di questi animali amorosi; una mano di quelle che si trovano alle origini delle arti e del popolo. E poco più in là, dietro una baracca, dove una tribù di zingare metteva strilli da cacatòa, un soldato dell’esercito rosso si faceva leggere il palmo della mano. Ecco dove s’era rifugiata
Il battello «Mihail Kalinin» mi accolse come gli ospiti di gran riguardo. La mia guida prese posto accanto alla mia cabina, e poi mi aspettò fuori per condurmi a fare quattro passi sul ponte. Anche a tavola sedeva di fronte a me. Un’aria ristoratrice veniva su pel fiume che a Nizni è vasto, e tra le dune e gli allagamenti al suo incontro con l’Okà sembra immenso. Ero il solo straniero tra i viaggiatori, quasi tutta gente che passava i suoi quindici giorni di vacanza annuale andando ad Astrakan e tornando indietro con lo stesso vapore, ottocento chilometri in tutto. E in verità il viaggio è riposante. A Mosca m’ero già stancato, cominciavo a soffrire di angosce repentine e inesplicabili, e vibravo già di quel senso vago di pericolo che domina il cittadino sovietico e ne rende la vita tanto facile a spezzarsi di colpo. Qui la maestà del fiume, e questo navigare per tutti i suoi avvolgimenti come su una bella strada piana, e il senso dei giorni e delle notti da passarvi senz’altro svago tra le due rive, le stazioni, le vicende della gente, riposano; e intanto, su questa grande strada fluviale, c’è tutta la Russia vecchia e nuova.
La vecchia veniva incontro a noi: era una grande imbarcazione di tipo Fulton che risaliva la corrente, e presentandosi di prua non lasciava scorgere nulla del suo carico, coperta com’era da una tenda e da certe frasche che le davano il colore d’una zolla natante; poi, virando per rasentarci, si mostrò profonda e ombrosa, in una pacifica mescolanza di cavalli, buoi e uomini tra balle di merci. Pareva un’arca. Uomini e animali avevano il medesimo sguardo assorto nella pausa inattiva e fantasiosa dei lunghi viaggi. Discendendo ancora la corrente, il più antico mezzo di viaggio dell’umanità, un venerabile esemplare senza età tanto era remoto, apparve dapprima con l’aspetto dei rottami che vanno alla deriva. Erano lunghi convogli di tronchi d’albero; i tronchi scortecciati e lunghissimi erano legati insieme a forma di zattera, e queste zattere erano legate da sei a dieci in fila formando piattaforme galleggianti lunghe da duecento a cinquecento metri; la barra d’un grande timone era nel centro del primo convoglio, ed era un tronco d’albero che governava una ruota orizzontale di tre metri di diametro che doveva certo mettere in moto il timone sotto; più oltre, sulla seconda di queste zattere, era costruito un baracchino con una torretta che pareva un campanile, dello stesso disegno delle villette russe di campagna, e il baracchino aveva le sue finestre, le piante sul davanzale, e la sua porta. Quando lo rasentammo, dalla porta uscirono uomini e donne, e certi bambini giocavano da zattera a zattera, dove i tronchi ben messi facevano uno spiazzo ondulato e pulito, senza pericolo che andassero a finire in acqua. Sull’ultima zattera una campana pendeva da un’impalcatura, pei segnali, e un uomo là fumava all’ombra della garritta. Questo spettacolo mi parve bellissimo, e ognuno di questi convogli che rasentavamo era nuovamente bello. Penso che questo debba essere sempre stato cosi, da quando il primo uomo s’avventurò sulle vie liquide dei fiumi e dei mari. Questi carichi discendono per settimane e mesi i mille e quattrocento chilometri del corso del Volga, imboccano ta
lvolta gli affluenti e li risalgono aiutati controcorrente da piccoli rimorchiatori, prendono il filo della corrente dei fiumi che si versano dalla parte opposta, sul Baltico, e taluni arrivano sino alla Duna, nel golfo fluviale di Riga.
Proprio a Riga, su taluno di cotesti tronchi, s’è letta la scritta: «Operai lavoratori dell’Occidente, non date aiuto alla dittatura del proletariato che opprime i vostri compagni russi». Alla fine, se si riuscisse davvero a stabilire chi li opprime, i lavoratori!
Questi convogli sono in secca su per le prode del Volga, nuovi, con la baracchina nuova, e il barellino nuovo all’ultima zattera. Quando il fiume sale in piena, li tira nella corrente e partono.
Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea. Anch’essi, io penso, armenti collettivizzati. Che cosa ci sarà nella testa d’un pastore collettivizzato? Oh, quando i pastori e i contadini dovettero mettere insieme i loro animali, li andavano a trovare nella fattoria comune, portavano loro un po’ di buon foraggio, come si fa coi parenti carcerati, e tenevano anche lunghi discorsi, come fanno i pastori, abituati ad esser soli con le bestie che capiscono e non sanno rispondere. Nella sera, mentre le rive sembrano allontanarsi, e fuochi si accendono qua e là sulla striscia bianca di sabbia, una barca solitaria è uscita sulla corrente ed ha a prua un ramo di betulla per vela. La fatica qui è rimasta fatica, ed ecco una cosa per cui gli uomini erreranno da illusione a illusione, perché dalla fatica non ci libererà mai nessuno. La propaganda sovietica diffonde fotografie sul lavoro duro della gente del Volga prima della rivoluzione; Pudòvchin, nel suo film «Disertore», ci ha mostrato ironicamente i facchini dei porti curvi sotto il peso dei loro carichi, e la ricca automobile tirata su dalle gru a bordo. Come effetto non c’è che dire. Ma qui sul fiume tutto è rimasto lo stesso, convogli di tronco d’albero e la barca che non ha altra vela se non un ramo di betulla. E i facchini, sugli scali del Volga portano sulla schiena ancora un basto su cui caricano e legano le merci pesanti. È un basto ornato di piccole bullette, foderato e imbottito, come quello di certi muletti orientali e meridionali, è il vecchio basto, ed è più comodo che a caricarsi la roba sulla schiena nuda. Ma non son io che bado ai simboli nella fatica, né attribuisco la fatica a un’epoca sola del mondo. L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende una vacanza, prima di tornare alle sue leggi.
Corrado Alvaro
(da «La Stampa», 1938; poi in “Viaggio in Russia” – Sansoni, Firenze 1945)
Tratto da: Dal giornalismo alla letteratura – A cura di Gaetano Afeltra e Silvana Cirillo Ed. Einaudi Scuola – Milano 1994 (Pag. 119 e segg.)