Era da un bel po’ che la Lega non agitava la bandiera della secessione. Scelta tattica. E anche obbligata. Come può infatti un partito di governo, caricato di responsabilità nazionali, titolare tra l’altro del Ministero degli Interni cui è affidato il compito di garantire l’ordine, cavalcare il secessionismo che va a sovvertire proprio quell’ordine che uno dei suoi uomini è chiamato a tutelare? Era quindi logico che quando la Lega ha deciso di essere partito di governo, abbia riposto la secessione nel cassetto e piuttosto abbia concentrato la propaganda sul federalismo. Riposto nel cassetto. Non abiurato. Perché, sotto sotto, dal nome dei gruppi parlamentari (Lega nord per l’indipendenza della Padania), ai discorsi nei comizi, alle chiacchiere nei bar, il secessionismo è sempre rimasto nel cuore e nel bagaglio politico-culturale della Lega.
E ogni tanto viene fuori. Specie nei momenti di crisi come questo, quando il Capo, di fronte a oggettive difficoltà, costituite dal non essere stati in grado di ottenere, dopo tanti anni di governo, il federalismo né di aver attuato una soddisfacente politica di controllo dell’immigrazione, che poi sono i punti chiave del loro programma politico, è costretto a tirare fuori dal cassetto l’idea forte della secessione per tenere assieme il popolo leghista.
E siccome le difficoltà per la Lega non sono finite e anzi sono in aumento, tutto lascia prevedere che quel cavallo di battaglia verrà cavalcato ancora nei prossimi mesi.
L’appannamento della leadership di Bossi, il calo elettorale, le divisioni interne, il malumore della base per un certo nepotismo che ha il carattere della sfrontatezza quando assume le sembianze del Trota, l’insofferenza di certi dirigenti intelligenti per la conduzione del partito sono tutti elementi di indebolimento che, come contrappeso, esigono il ricorso a parole politiche forti, com’è appunto la secessione, al fine di tenere unite le truppe.
Ma tutto ha un prezzo. In politica, come nella vita. Come non si può pretendere di essere al tempo stesso partito di governo a Roma e partito di lotta sul territorio senza poi pagare l’incoerenza in termini di consenso? Allo stesso modo non è pensabile agitare la secessione senza pagarne il prezzo in termini politici e, come buttato lì non a caso da Napolitano, in termini giuridici, quando ha ricordato che il leader del separatismo siciliano Finocchiaro Aprile fu arrestato.
Un monito, come s’usa dire per i discorsi del Capo dello Stato?
In democrazia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere le proprie idee, anche se sbagliate. Perseguire i reati d’opinione, qualsiasi opinione, è quindi incostituzionale oltre che ingiusto. Ma la storia ci insegna che il confine tra l’idea e gli atti per la sua realizzazione è molto labile. Ed è qui che si potrebbe infilare qualche magistrato sensibile all’alto monito del Quirinale.