E adesso? S’era fatto molto tardi, di là tutti sbadigliavano e si stiracchiavano immersi nelle poltrone, potevamo andarcene a letto? Eh no, la missione non era finita, ancora toccava a noi spedire il telegramma. E come? Alle due passate del mattino? Ma dalla posta centrale, aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, non lo sapevi? Su, presto, non c’è un minuto da perdere, l’ONU freme nell’attesa del nostro appello.
Mia moglie accompagnò a casa la moglie di Bollati, Bollati mi prese su sulla sua Volkswagen color bronzo e scendemmo stridendo per le curve della collina, attraversammo la città e arrivammo al palazzo della posta centrale, che era davvero aperta, aveva davvero un impiegato solo e mesto dietro uno sportello. Ecco qui il testo, battuto (da me) a macchina, una bella pagina di belle parole inglesi. Quello lesse, cominciò a contare muovendo le labbra, col dito che correva lungo le righe e alla fine ci disse quanto costava.
Fu qui che la farsa entrò nella rivolta di Budapest. Bollati tirò fuori il portafoglio, constatò che i soldi non bastavano, si rivolse con il mento a me che constatai la stessa cosa. Negli spazi eleganti e un po’ algidi della casa editrice circolavano idee, fermenti, sperimentazioni, proposte di altissima, indiscussa qualità intellettuale; ma, di soldi, per qualche ragione ne giravano pochi.
Mettemmo insieme le nostre sommette ma nemmeno così si arrivava alla cifra. Pensai di slancio a una soluzione modello Pinocchio: chi c’era di là, al palazzo dell’ONU, che potesse controllare? Nessuno. Il testo italiano dell’appello avrebbe avuto il dovuto risalto su qualche giornale, mentre laggiù nessuno (come ripetevo da ore) ci avrebbe fatto il minimo caso se non arrivava il nostro fottuto telegramma. Quindi stracciamolo e andiamocene a casa.
Ma Bollati, che era un uomo d’onore e non un burattino di legno, rifiutò nettamente. Allora potrei provare a scorciare, riassumere, dimezzare le parole… No, il testo ormai era quello e così doveva arrivare ai massimi livelli del potere internazionale. Ma allora come facciamo coi soldi? È semplice, andiamo a chiederli al “padrone”.
Lasciammo quel salone pieno di ombre e rimbombi dicendo all’impiegato che saremmo presto tornati e andammo sotto al domicilio del “padrone”, che abitava su un corso non lontano a un piano rialzato. Non c’era un’anima in giro, rare automobili frusciavano sotto gli alberi. Ecco, quella è la finestra della sua camera da letto, mi informò Bollati, assiduo frequentatore della casa. Cercammo qualche manciata di ghiaia sul controviale, la tirammo contro i vetri. Niente. Dopo una simile giornata di battaglia, Einaudi doveva essersi addormentato come un carrista sovietico. Altri sassolini, altro silenzio. E le castagne d’India? Meglio di no, rischiarne di spaccare un vetro.
Non restava che il metodo Arsenio Lupin. Bollati incrociò le mani a staffa, io mi tolsi le scarpe, mi issai su quel sostegno, raggiunsi la finestra, cominciai a battere con le nocche. Più forte, diceva Bollati, semistrozzato dallo sforzo. Ripresi a picchiare sempre più rumorosamente e infine la finestra si aprì, Giulio Einaudi apparve con un’aria appena stupita in un bel pigiama celeste. Guardò in giù, ci vide, non disse una parola. Io saltai a terra e Bollati gli spiegò affannosamente
to un giorno di troppe parole, dette, gridate, ascoltate, lette, scritte, decifrate, e quel silenzio veniva come un soave soffio di piume. Immaginavo vagamente un remoto impiegato dell’ONU che in questi istanti, cravatta slacciata, stanco quanto noi, registrava il nostro appello a New York. Cosa ne avrebbe fatto? Dove lo avrebbe messo? In archivio? Nel cestino? In quella macchina che trancia i fogli in tante striscioline? Non ne seppi più niente, in ogni caso, e non ne parlai mai più con Einaudi e Bollati.
Entrambi molto orgogliosi, ipersuscettibili alle magre figure, così senza dubbio se la mettevano: una figuraccia (anzi meno ancora, uno stupido intoppo) da dimenticare alla svelta, da rimuovere, operazione del resto facile dato che ne eravamo al corrente soltanto noi tre. Niente pubblico, niente figuraccia. E non faceva nemmeno ridere come storiella da raccontare agli amici.
Su questo ero d’accordo anch’io: eravamo inciampati in un meccanismo comico, magniloquenza con le pezze al sedere, già noto ai tempi di Aristofane, ma in mezzo alle barricate e cannonate di Budapest, era una nota fuori posto, proprio non faceva ridere.
Carlo Fruttero
Tratto da: Mutandine di chiffon di Carlo Fruttero
ISBN 9788804600602 © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1ª edizione aprile 2010
(Pagg. 100 – 110)
Commento finale
Sarà per via della traduzione del testo destinato all’ONU, della insufficienza dei soldi necessari alla spedizione del cablogramma o del metodo “Arsenio Lupin” che l’Autore prova vergogna ancor oggi? Confesso di non averlo capito.
Riassunto della 1ª parte: B iondo era e bello e di gentile aspetto
Giulio, rampollo di casa Einaudi, veste in modo raffinato, è di bella e imperiale presenza e guida
http://www.dabicesidice.it/articolo.asp?file=224CFrutteroI.xml
Riassunto della 2ª parte: L’appello all’ONU
Il clima si fa sempre più misterioso, i minuti scandiscono il tempo dell’attesa, tempo che appare interminabile. Giulio Primo (Einaudi) e Giulio Secondo (Bollati) riuniti in concistoro emettono un decreto ineludibile e, nel contempo, di altissimo profilo politico: si deve inviare un cablogramma con un appello all’ONU. Un appello dai contenuti eccelsi che l’anglista ufficiale deve tradurre in breve tempo e alla lettera nella lingua ufficiale delle Nazioni Unite. Disgraz
iatamente, forse perché rinchiuso in una stanza o forse perché costretto suo malgrado all’impresa, l’anglista stenta ad apprezzare la profondità politica dell’appello e la somma altitudine del destinatario, recalcitra e definisce, con una certa superficialità, “aria fritta” le frasi di significato sublime di cui era denso il documento. Alfine riesce a compiere l’impresa traduttiva, ma , per motivi ancora oscuri, se ne vergogna ancora oggi.
http://www.dabicesidice.it/articolo.asp?file=224bisPag.Mem.xml
[1] Nato a Torino nel 1926, Carlo Fruttero è romanziere, traduttore, saggista, collaboratore del quotidiano “La Stampa”.
Assieme a Franco Lucentini (1920-2002) ha firmato decine di romanzi gialli e di saggi. Sempre con Lucentini, Carlo Fruttero si è occupato anche di fantascienza, dirigendo la collana “Urania” (Ed. Mondadori) per più di un ventennio.