Non mi stupisce più di tanto l’attacco americano diretto contro il regime di Bashar al Assad mascherato da atto di ritorsione dopo la strage provocata da un gas chimico sganciato da aerei siriani fedeli al regime a Khan Sheikhoun. Apro una parentesi: lo dissi anticipatamente. Se fossi stato un cittadino americano alle passate elezioni, non avrei saputo chi scegliere come presidente. Ora, speriamo per il bene del mondo, che la scelta fatta dagli elettori non sia stata la peggiore. Veniamo al presente. Il nuovo presidente Donald Trump con i suoi consiglieri sembra, a mio parere, ancora alla ricerca di un nuovo scenario, specialmente in politica estera, in cui collocare la più potente nazione della terra dopo la disastrosa gestione in quell’ambito da parte di Barak Obama. Lo fa secondo il più vecchio sistema del mondo. La diplomazia delle cannoniere. In poche parole, in passato le potenze europee intimidirono altri stati per stringere accordi commerciali o altri trattati mediante la dimostrazione della propria superiorità militare. Nel caso della Siria, si vuole mandare un messaggio alla Russia e calmare gli infidi alleati sunniti del Golfo, dopo che gli americani sono stati costretti a intervenire in aiuto della minoranza sciita (ma anche di altre religioni) in Iraq e nella stessa Siria. Tutto questo naturalmente, è dovuto alla cronica mal interpretazione delle situazioni territoriali locali e alla mancata visione in politica estera che viene da lontano. Possiamo dire che dalla loro nascita gli USA si sono valsi di esperti esteri, solo per ottenere vantaggi territoriali e poi economici. Un piccolo riassunto non guasta. Nell’ottocento abbiamo avuto l’aggressione a due nazioni in pieno decadimento sia dal punto di vista militare che economico: il declinante impero coloniale spagnolo e il Messico. Non solo, gli USA non si fecero mancare anche un atto di forza, definito il Trent Affair, contro la più potente nazione al mondo, la Gran Bretagna. Nel novembre 1861, durante la guerra civile o di secessione fra Nord e Sud, una nave britannica, il Trent, che trasportava due emissari del governo sudista diretti in Gran Bretagna, fu fermata in acque internazionali da una nave nordista che la abbordò e sequestrò i due sudisti in spregio a tutte le norme in vigore. Dopo una dura reazione diplomatica, il governo di sua Graziosa Maestà, valutati i pro e i contro, preferì lasciare cadere la cosa. Il meglio viene negli anni che vanno dal primo ‘900 fino a oggi con errori di valutazione grossolani. A partire dal riconoscimento da parte del nuovo presidente americano Franklin Roosevelt nel 1933 del governo bolscevico. Decisione presa, sembra per quanto scritto da Mosca dal fervente filosovietico Walter Duranty, che assicurò il presidente in quanto: – Il termine bolscevico aveva perso molto del mistero e del terrore che suscitava un tempo- , come scrive Anne Applebaum nel suo libro la Cortina di Ferro edito nel 2016 per Le Scie Mondadori (pag. 70). Roosevelt poi perseverò, alla conferenza di Jalta, dove regalò 49 anni di comunismo a mezza Europa. Successivamente ci furono gli anni dedicati ai paesi sudamericani, in cui il governo americano appoggiò le più svariate repubbliche di banane. Qui, in nome dell’anticomunismo, c’è anche la scusante economica. Arriviamo al 23 gennaio 1973 con gli accordi di Parigi per porre fine alla guerra in Vietnam fra USA e Vietnam del Sud da un lato, contro Vietnam del Nord e Repubblica del Sud Vietnam (il governo provvisorio istituito dai guerriglieri vietcong) dall’altro. Sappiamo tutti come andò a finire. Due – tre milioni di morti fra Laos, Cambogia e Vietnam oltre a migliaia di profughi. Nel 1979, l’abbandono del più fedele alleato in Medio Oriente: lo Scià Mohammad Reza Pahlavi in Iran. In Africa meridionale (Somalia) nel 1993, dopo la battaglia di Mogadiscio, le forze armate americane (che ebbero 18 morti e 73 feriti), mollarono tutto e si dileguarono lasciando una nazione ancora oggi in mano ai signori della guerra e a bande di fanatici integralisti islamici. Riappaiono con l’UE nella disgregata Jugoslavia per attaccare la Serbia. Fanno nascere due stati: Bosnia Erzegovina e Kosovo, per vendere un po’ di armi. Arriviamo al presente, dove l’amministrazione americana sembra dare il meglio, in senso negativo, chiaramente. Si lancia nell’impresa, insieme con altre nazioni europee, per destabilizzare governi dittatoriali ma laici, che si affacciano sulla sponda africana del Mediterraneo senza un progetto successivo ben definito. Risultato? Abbandonare nella confusione più totale che si viene a creare, la mala erba dell’integralismo più deleterio dell’Islam. In Iraq, lasciando una nazione in lotta fra due rami della stessa religione: sciiti e sunniti. A seguire, sempre in Iraq, l’intervento tardivo contro l’Isis ha permesso a quest’ultimo di fare migliaia di morti. In Siria, appoggiano un’alleanza contro il regime laico di Assad, alleanza composta per la maggior parte da milizie filo islamiche. In Libia non andò meglio. A questo punto sorge spontanea una domanda che non è cinica. Va bene colpire un dittatore che usa armi chimiche contro la popolazione civile, ma la stessa fermezza non dovrebbe essere usata con chi uccide o rapisce giovani donne (Nigeria) in nome di una religione o del fatto che mette un’arma in mano a un bambino? Gli esempi sarebbero tanti, ma rischierei di essere noioso. Termino ponendomi, e ponendo al lettore, una domanda. Gli USA stanno ancora una volta sbagliando nemico? Vladimir Putin, soprannominato il nuovo Zar, secondo il mio parere, non è Ivan il Terribile e Assad non è Erode.