Il termine migrante è di recente introduzione almeno dal punto di vista della narrativa giornalistica, se torniamo infatti indietro con la memoria ci renderemo conto che questo vocabolo era sconosciuto alle cronache di tutti i giorni almeno sino al 2010: generalmente in quell’epoca chi tentava di sbarcare nelle coste italiane venivano etichettati dalla stampa nazionale come clandestino. Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 quando iniziano a manifestarsi i problemi di ordine pubblico nelle popolazioni delle coste africane (ricordiamo il termine di primavera araba coniato dall’establishment per descrivere le cadute delle dittature di Egitto, Libia, Algeria e Tunisia ossia la primavera araba) improvvisamente, quasi come se ci fosse stato un ordine impartito dall’alto, il termine clandestino viene prontamente messo al bando e sostituito con il termine di migrante utilizzato giornalisticamente parlando in pieno spirito politically correct. Da quel momento in poi inizia, molto misteriosamente, la telenovela quotidiana della crisi migratoria grazie proprio alla destabilizzazione politica delle nazioni africane che si affacciano sul Mar Mediterraneo. A utilizzare per primo il vocabolo “migrants” ossia migranti è l’ONU, ma non nel 2011, ma molti anni prima, vale a dire alla fine degli anni Novanta, l’istituzione che al suo interno precisamente utilizza questo termine è il Department of Economic and Social Affairs (DESA) il quale pubblica un report macroeconomico denominato Replacement Migration, all’interno del quale viene descritto, analizzato e proposto una soluzione pratica alla diminuzione della popolazione per le principali economie occidentali a fronte di un crollo del tasso di fertilità.
Sostituzione per migrazione ossia compensazione del deficit demografico mediante il ricorso ad espedienti che promuovano e favoriscano la migrazione di genti da paesi a surplus demografico in favore di quelli in deficit demografico. Lo scopo di questa soluzione non convenzionale è quella di continuare a rendere finanziariamente sostenibili i modelli di previdenza pubblica e la crescita economica delle nazioni che saranno colpite da una contrazione consistente della loro popolazione nei prossimi decenni. Secondo lo studio analitico effettuato dall’ONU circa 20 anni fa, le economie occidentali che subiranno la maggiore contrazione in termini demografici sono Germania, Italia e Giappone, le quali entro il 2050 perderanno tra 1/4 ed 1/3 della loro attuale popolazione, il che si tradurrà in un rapporto di due lavoratori per ogni pensionato rispetto all’attuale di quattro a uno. Tutta l’Unione Europea che ad inizio del Millennio era più grande di 100 milioni rispetto agli Stati Uniti per tale data sarà più piccola di 18 milioni, contrariamente agli USA che invece aumenteranno di ¼ la loro popolazione complessiva in forza di politiche immigratorie incentrate sull’utilità dell’immigrato per il sistema economico nazionale. Il declino della popolazione italiana ed anche europea è purtroppo inevitabile, l’establishment europeo ha deciso per questo di abbracciare la soluzione dell’ONU e metterla in pratica: questo spiega la reticenza delle autorità sovranazionali europee a regolare o limitare il fenomeno dell’importazione programmata di analfabeti funzionali dalle nazioni africane.
Anche il Giappone, che ricordiamo è la terza economia del mondo, ha innanzi a sé lo stesso tipo di scenario, se non addirittura peggiore: il paese del Sol levante perderà oltre il 15% della sua popolazione entro il 2050 se non modificherà la sua politica sull’immigrazione straniera. Per ragioni geografiche e culturali, il Giappone ha sempre mantenuto un approccio isolazionistico nei confronti del resto del mondo, la difesa del proprio capitale culturale è considerata un must nell’agenda politica di chi governa. Il sentimento di identità nazionale è talmente radicato nella popolazione tanto da considerare una minaccia l’influenza culturale proveniente dalle altre nazioni asiatiche. Per questo motivo il Giappone detiene una delle percentuali più basse al mondo di popolazione non autoctona, vale a dire meno del 2%, tuttavia questo non gli ha impedito di sviluppare interi settori economici che non temono concorrenza nel mondo. Il deficit demografico e l’invecchiamento continuo e progressivo della popolazione hanno spinto il governo di Abe Shinzo, soprattutto per le pressioni delle lobby industriali, a varare per la prima volta uno specifico dettato normativo che permette l’ingresso nel paese di immigrati qualificati. Questo tema è decisamente rilevante in quanto anche una nazione che per decenni si è dimostrata ostile a chi non è giapponese, ha deciso di aprire le porte, ma lo ha fatto con un quadro normativo tutt’altro che superficiale ed effimero.
La legge sull’immigrazione denominata Immigration Control and Refugee Recognition Act che è stata recentemente riformulata dopo un intenso dibattito politico di quasi un’anno istituisce due tipologie di visto per lavoratori stranieri (coisiddetti business visitors). Il Temporary Work Permit consente una permanenza lavorativa a tempo determinato per un massimo di cinque anni, ed è rivolto a lavoratori generici che possono essere impiegati solo in determinati settori economici con carenza di manodopera (sopratutto edilizia ed agricoltura) e diano dimostrazione di parlare il giapponese almeno a livello basico. Il secondo visa denominato Highly Skilled Worker viene concesso solo ai lavoratori altamente specializzati per un periodo di tempo prestabilito dalle esigenze dello sponsor, vale a dire l’azienda che ne certifica la necessità: questo visto di lavoro può tuttavia essere rinnovato, contrariamente al primo che obbliga a lasciare il paese al suo termine naturale. Il permesso di residenza permanente può essere richiesto solo dopo dieci anni consecutivi di permanenza nel paese come Highly Skilled Worker. In questo momento il Giappone confida di poter fare entrare circa 350.000 lavoratori standard e 150.000 professionisti qualificati. A questo punto nazioni come l’Italia si dovrebbero chiedere per quale motivo non sarebbe sensato e ragionevole clonare un simile approccio legislativo alla gestione dell’immigrazione piuttosto che continuare ad importare analfabeti funzionali dalle coste africane che sin dall’inizio si convertono in un costo per lo stato sociale a fronte di inesistenti benefici per il sistema paese.