Un tramonto malinconico per l’ultimo simbolo dell’«asse del Nord»
del 06 aprile 2012 di Massimo Franco
Le dimissioni di Bossi 4 mesi dopo la caduta del governo Berlusconi
L’uscita di scena di Umberto Bossi avviene quattro mesi dopo la caduta del governo di Silvio Berlusconi. E sembra confermare, seppure al rallentatore, la tesi secondo la quale i due sarebbero rimasti al potere insieme, e caduti insieme. Probabilmente, colui che è stato per ventitrè anni il padre padrone della Lega ha aspettato troppo; non è riuscito a creare un simulacro di successione; e ha lasciato mano libera a una cerchia oligarchico-familista che rischia di distruggere il Carroccio. Per questo le sue dimissioni di ieri sono, al di là degli attestati ufficiali di stima, malinconiche, nonostante la statura indiscussa di Bossi. Il triumvirato che prende il posto del leader sa di compromesso al ribasso, e gonfio di ambiguità.
Gli insulti contro l’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, accusato dai bossiani di tradimento, evocano il pericolo di una guerra civile padana per il controllo del movimento. E l’inserimento al vertice di un altro ex ministro, Roberto Calderoli, citato in modo imbarazzante nelle carte della magistratura, sa di condizione chiesta e ottenuta dai fedelissimi per avallare l’operazione. E il fatto che Bossi abbia dato le dimissioni per proteggere Lega e famiglia lasciano indovinare un terremoto appena agli inizi. Il lato giudiziario è il più appariscente, ma non l’unico.
È la conseguenza dell’esaurimento di un’identità e di un sistema di potere che si intrecciava con quello berlusconiano;e che si è illuso di sopravvivere scegliendo un’opposizione di retroguardia, aggravata da un moralismo fatto a pezzi dalle inchieste giudiziarie. La rabbia dei militanti impasta l’umiliazione di vedere tramontare una «diversità» ostentata; e in parallelo una devozione verso Bossi appena scalfita dalle vicende giudiziarie. Riesce difficile non vedere la contraddizione fra l’idea di una forza politica sotto il controllo assoluto del leader, e la convinzione che Bossi sia estraneo a quanto di male sarebbe accaduto negli ultimi anni.
Lo riconosce anche lui, quando avverte che chi sbaglia paga qualunque cognome porti: un’allusione ai figli chiamati in causa nelle inchieste. La sua malattia, in realtà, spiega almeno in parte che possa essere stato tenuto all’oscuro dei maneggi più disinvolti: sebbene la distrazione sia un’attenuante sul piano giudiziario ma non su quello politico. Maroni avvertiva da mesi il declino della Lega, e lavorava per conquistarla senza parricidio politico. Ma il rancore dei seguaci del Senatur contro di lui fa pensare che il rinnovamento non sarà facile, in mezzo a macerie politiche e personali.
Non è azzardato ritenere che di qui alle Amministrative del 6 maggio, e in vista delle Politiche del 2013, la caccia all’elettorato leghista deluso sarà inesorabile. E, visto che il Carroccio era una forza «pigliatutto», si può pensare che un’eventuale emorragia possa prendere direzioni diverse: sebbene il Pdl come ex alleato, e l’Idv per la carica antipolitica, appaiano avvantaggiati. Ma quanto sta succedendo va letto su uno sfondo più largo, di scomposizione del sistema politico e di creazione di un vuoto. Con un ultimo paradosso: che a far cadere Berlusconi non è stata la giustizia, ma la crisi economica, mentre proprio Bossi viene affossato dalle inchieste.
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Ascesa a caduta del Re dei padani
del 06 aprile 2012 di Giorgio Ferrari
«Strinatemi questa testa canuta. Tu, tuono apoletano del mondo, spianala d’un colpo al suolo questa compatta sfera del globo, rompi gli stampi di natura; disperdi tutto e tutti insieme ai germi onde si genera, mostro d’ingratitudine, l’uomo». I versi del Re Lear scespiriano sono forse troppo nobili per un finale così teatralmente ordinario, qual è l’atto conclusivo dell’avventura politica e umana di Umberto Bossi, tradito e gabbato – a quanto si capisce e si apprende – dai più prossimi fra gli affetti, dai suoi stessi pretoriani che vegliavano occhiuti su quell’improbabile cerchio magico nel quale da anni ormai era recluso, imprigionato, sordo al mondo e al fluire delle cose. Si dirà magari, un domani, che più che un Re Lear Bossi è stato – da ultimo – un Rigoletto, cui meglio si attagliano i versi impietosi di Piave: «Coi fanciulli e co’ dementi, spesso giova il simular…». Perché in quell’uomo vulnerato dall’infermità fisica e da mesi ormai cos
tretto all’irrilevanza politica, in quel leader di partito un tempo fulmineo nelle sue intuizioni, che ora inveisce ringhioso contro i reporter giustamente insistenti, invocando il pestaggio da parte della scorta, quasi gli agenti messi a proteggerlo fossero dei bravi manzoniani al suo esclusivo servizio, che risolve nei gesti apotropaici e nei motteggi da osteria la mesta sintesi del proprio pensiero, c’è tutto il dramma di una parabola malamente conclusa e portata, non per sua esclusiva colpa, alle sue estreme, mortificanti conclusioni.
Sembra passato un secolo da quell’esordio nel 1982, quando questo sconosciuto quarantunenne di Cassano apolet, figlio primogenito di un operaio e di una portinaia, studi irregolari e interrotti varie volte, fonda insieme all’amico Roberto Maroni e all’architetto Giuseppe Leoni la Lega Autonomista Lombarda, su modello dell’Union Valdôtaine. Non è ancora la stagione di “Roma ladrona”, ma Bossi viene folgorato sulla sua personale via di Damasco da una parola che pronuncerà milioni di volte nei successivi vent’anni: federalismo. Nessuno gli bada, a quell’epoca. Nemmeno quando, nel 1987, si guadagna uno scranno a Palazzo Madama (da lì l’appellativo di Senatùr, che lo accompagnerà per sempre), in tandem con Leoni, che diventa il primo deputato della Lega. Ci vorranno ancora due anni perché il movimento (all’origine un arcipelago di sigle disseminate per tutto il Nord, nate da un diffuso malcontento nei confronti della classe politica) assuma la fisionomia di un partito vero e proprio, e altri tre, prima che alle politiche del 1992, in piena Tangentopoli, la Lega Nord sfondi a spese soprattutto della Dc, ridotta al suo minimo storico. Ma il vero botto avverrà nel 1994, quando Bossi si allea con la neonata “Forza Italia” di Silvio Berlusconi, facendo man bassa di voti e di poltrone, un vero ciclone sociale e massmediale, oltre che politico.
La Lega dilaga, Bossi ha un record di preferenze, il ceto medio del Nord lo applaude, imprenditori, magistrati, intellettuali, giornalisti gli si gettano ai piedi. Lo affianca, insieme alla pattuglia di fedelissimi della prima ora (oltre a Maroni, Speroni, apoletano, apoletano, Borghezio) un pensatore di rango come Gianfranco Miglio, ex preside di Scienze Politiche all’Università Cattolica a Milano, da un po’ in odore di eresia per quella sua sulfurea propensione a perseguire il federalismo con ogni mezzo, come uno dei suoi amati maestri – Niccolò Machiavelli – prescriveva. Per qualche tempo la popolarità del professore apoleta surclassa quello dello stesso Bossi. Ne scaturirà una gelosia che finirà per emarginare il brillante studioso di Carl Schmitt e autore delle Contraddizioni dello Stato unitario, relegato a un posto di consolazione al Senato mentre il ministero per le Riforme Istituzionali andrà al meno ambizioso Speroni.
Alla carica quasi rivoluzionaria che la Lega incarna si accompagna una scaltrezza politica che nessuno avrebbe mai immaginato in quel malinconico senatore, cui fino a pochi anni prima nessuno rivolgeva la parola. Bossi è spiazzante, imprevedibile, fuori schema, sia che si mostri – mussolinianamente? – a torso nudo o in canottiera, o bocci l’Inno di Mameli sostituendolo con Va’ pensiero, o passeggi nel parco di Arcore a braccetto con Berlusconi. Al quale riserva a pochi mesi dal trionfo elettorale un coup de théâtre degno di lui, togliendogli la fiducia e dando vita al famigerato ribaltone.
Ma la Lega, Bossi lo ha capito, da quel momento è in grado di camminare da sola. Le elezioni del 1996 la premiano con un 10,8% a livello nazionale (il 30% in Veneto e il 25% in Lombardia) e Bossi, con un altro colpo di scena, cambia marcia. Al mito del Carroccio, di Alberto da Giussano, del Barbarossa sconfitto dai lombardi, ora associa quello celtico di un’immaginaria e molto immaginata Padania, terra segnata e percorsa dal Po, per la quale il Senatùr s’inventa un rito sul Monviso con tanto di ampolla di acqua apolet da versare nell’Adriatico, dove il grande fiume padre della pianura alluvionale si va a disperdere. Da quel giorno l’Italia una e indivisibile si accorge di avere un spina nel fianco: al federalismo (il cui significato e la cui applicazione pratica Bossi non ha mai voluto completamente chiarire) il Senatùr abbina un altro e ben più minaccioso termine, secessione, allestendo – ai margini della legalità – un sedicente Parlamento del Nord alle porte di Mantova. Bossi ancora non lo sa, ma la parabola discendente di quella “Lega di lotta e di governo” è già iniziata. Alle elezioni politiche del 2001, dopo cinque anni di opposizione ai governi di centrosinistra e la ritrovata alleanza con Berlusconi nella Casa delle Libertà, il movimento non andrà oltre il 3,9%.
Gli ultimi anni Bossi – e non soltanto lui – li ricorderà probabilmente come un piccolo calvario. Non solo fisico (nel 2004 lo colpisce un ictus che lo tiene lontano per mesi dalla vita politica attiva e gli impone una lunga sconfortante riabilitazione), ma anche politico e forse umano. Alle brillanti sortite tattiche il Senatùr affianca ormai il ringhio quotidiano contro ogni potere, istituzione e realtà difforme dalla sua visione a senso unico, dal Quirinale alla magistratura, passando per i vescovi italiani, cui non ha mai lesinato improperi e rimproveri.
Fino a quel cappio (un contrappasso per quello stesso cappio agitato dai suoi deputati nell’aula parlamentare, ricordate?) che gli si è serrato attorno al collo nelle ultime ore, travolto da un’indagine che lo colpisce al cuore degli affetti e che, a prescindere dall’esito giudiziario, lo espropria per sempre di quella purezza leghista che da sempre esibiva, sorella gemella di un’altra grande decaduta, la diversità comunista, anch’essa da tempo finita nella polvere delle miserie quotidiane. Il resto è silenzio.
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EUROPA
Non è più il tempo delle avventure
del 06 aprile 2012 di Stefano Menichini
La crisi letale ha le fattezze rubizze di un faccendiere, il volto congestionato dalla rabbia di una vicepresidente del senato detta la Badante, la faccia da schiaffi di un erede noto come la Trota (schiaffi nel senso di quelli che avrà rimediato da suo padre nelle ultime ore). Una roba a metà fra Balzac, commedia all’italiana (che beffa) e tragedia shakespeariana.
Ma la Lega Nord – simbolo della Seconda repubblica, dopo Berlusconi – è spinta in questo sprofondo da un doppio fallimento, molto più grave e irrimediabile delle ruberie di un Belsito.
Bossi ha fallito catastroficamente nella sua missione nel nome del Nord contro l’Italia. Il potente soffio rivoluzionario che spirava tra il ’90 e il ’92 s’è spento un po’ alla volta, come la voce del capo. E in chiusura del ciclo, il massimo che la Lega consegna alla sua inesistente Padania è un pugno di discreti amministratori, non a caso alla ricerca di una via d’uscita per sé ora che l’epopea collettiva finisce nel nulla.
Il secondo fallimento, dalle conseguenze anche più profonde, è quello del partito personale. Bossi molla umiliato, Berlusconi svanisce tipo gatto del Cheshire. E poi Grillo non sfonda, Di Pietro e Vendola rimangono a metà, i sindaci più ambiziosi restano parcheggiati o impantanati, nomi nuovi appaiono e scompaiono in un amen, inevitabile risorge il proporzionale: insomma, si chiude l’era delle piccole o grandi avventure legate alla singola personalità.
È un paradosso, perché invece il momento (paragonato spesso al ’92-’93) è di nuovo di grave crisi dei partiti, la capacità di leadership personale continua a contare per l’opinione pubblica (come spiegare altrimenti il caso Monti, il consenso per apoletano?), proprio ora dovrebbe aprirsi lo spazio per i newcomers. Invece niente.
L’unica spiegazione è che, un po’ come accadde col ventennio fascista, abbiamo fatto indigestione di uomini simbolo. Il vuoto lasciato da un duce venne allora colmato da grandi masse, organizzate in partiti capaci di nuove narrazioni: un passaggio storico irripetibile. Che cosa verrà adesso?
Il Pd, pur con tanti problemi, è la forza centrale del campo politico anche perché con Bersani ha investito su un altro modello. Il vuoto intorno però fa spavento, il futuro offre molte più incognite che certezze. Grazie anche, pensate un po’, a gente come la Trota.
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Bossi Story: il politico tutto cappio e slogan
del 6 aprile 2012 di Luca Telese
Le pretese da cantante, la laurea bluff, l’incontro con Maroni e l’invenzione della Lega: il Senatùr, una parabola lunga 28 anni. Disse: “”Questa classe politica non verrà seppellita da una risata, come recitava uno slogan sessantottino, ma dal tintinnio delle manette””
“Finché non rubo io nella Lega, non ruba nessuno”. Di certo non si è ricordato questa sua frase del 1989, Umberto Bossi, quando ieri ha rassegnato le sue dimissioni. Eppure, quasi profeticamente, tutto era già scritto in questo Dna, in questa premonizione che oggi lo insegue come una sentenza. La Lega nata ululando contro “i ladroni di Roma”, “i pretacchioni un po’ manigoldi della diccì”, contro quel “furfante con i coglioni di Craxi”, non poteva che andare in cortocircuito sulla questione morale. Non è un giudizio garantista. Ma è l’unico giudizio possibile, con Bossi, visto che il meno garantista di tutti i politici italiani è stato proprio lui: “Sono tutti ladri – scriveva – la sentenza popolare è stata già emessa, poco importa l’esito dei processi. I politici dei partiti – aggiungeva – hanno subìto la condanna dell’opinione pubblica che è, come tutte le condanne popolari, sovente spietata, talvolta ingiusta con gli individui, ma spesso storicamente esatta e sempre – concludeva spietato – politicamente inappellabile”. È stato così anche ieri, così anche per lui. Dimissionato sommariamente da quel che resta della sua stessa storia.
Il Bossi che negli anni ruggenti tagliava le teste, infatti, non aveva mai dubbi: “Questa classe politica non verrà seppellita da una risata, come recitava uno slogan sessantottino, ma dal tintinnio delle manette. Conta poco sapere se si è arricchito personalmente ho ha preso soldi per il partito. Questo conta in sede penale – aggiungeva il leader del Carroccio – ma non cambia la sentenza politica che è di colpevolezza”. A rileggere ora i giudizi affilati che il padre della Lega aveva consegnato alla sua prima e unica autobiografia, ovvero al trittico di best sellers scritti a quattro mani con Daniele Vimercati per la Sperling & Kupfer nei primi anni novanta (esauritissimi e – non casualmente – mai ristampati) ci si rende conto immediatamente del perché la base del Carroccio ieri abbia ripudiato il suo mito: ”Quando scoppiano le rivoluzioni – diceva all’Ansa nel 1993 – i Re non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio”. Ebbene, ieri Bossi è salito sulla stessa ghigliottina che evocava. Una ghigliottina metaforica, ma dalla lama terribilmente affilata.
Alla stampa, nel 1993 diceva: “I giudici sono la cura, ma la guarigione è la Lega”. Adesso l’unica cura possibile sono le sue dimissioni. Bossi è un ex di se stesso, non è più il leader che ripeteva spavaldo: “Vengo dalla gavetta, sono un uomo di strada e viaggio in groppa come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo”. Adesso è l’ultimo leader a sua insaputa, l’ultimo leader che ha visto piovere sulla sua famiglia “i denari di Roma”. A pensarci bene, solo ora, che esce dalla vita politica, Bossi può entrare finalmente nella sua vera dimensione, che è quella della commedia all’Italiana e del dramma farsesco, dell’impresa impossibile, del romanzo. Anzi: di un lunghissimo “Romanzo Padano”, visto che mentre la Lega rischia di essere travolta, l’unica cosa che Umberto Bossi consegnerà alla storia è il suo testamento creativo, l’almanacco delle sue visioni incarnate. La sua stessa fantasia, al Potere.
Bossi è stato il Philip Dick italiano, solo che invece di scrivere racconti, fantascientifici, ha creato un partito, fantascientifico. Chissà quanti noteranno, oggi, che la Lega è il più antico dei partiti italiani in Parlamento, il simbolo più antico sulle schede elettorali, l’unico sopravvissuto alle macerie della prima repubblica, un partito nato dalla forza delle visioni, degli slogan, e ovviamente delle balle. Se c’è una cosa in cui il Senatùr non ha avuto rivali è stato proprio il potere immaginifico, il potere della parola. Prendete la nascita del movimento. Bobo Maroni l’aveva raccontata così, a Giorgio Bocca, in Metropolis: “Frequentavamo il circolino di Bobbiate, uno di quei bar cooperativa con il gioco di bocce della provincia, lì si aggiunsero a noi Speroni e Leoni e lì nacque la Lega autonomista lombarda che di politico – conclude Maroni – aveva poco o niente”. E come avrebbe potuto diventare epico un movimento in cui i condottieri si raccontavano così? Certo che adesso nessuno potrà più dire come diceva Roberto Calderoli: “Magari siamo un partito ruvido, qualche volta rompiballe. Ma coerente”. Quando è andata smarrito questo filo asimettrico di coerenza? Con la Lega di governo? Con il ribaltone? Con il secondo matrimonio che la legato il Carroccio a Berlusconi? Certo, più passava il tempo, e più il leader che fu si inoltrava nel suo crepuscolo, protetto e strangolato dal Cerchio magico.
IL FIGLIO DELLE VALLI E LA VITA AGRA
Come sembrava lontano il primo Bossi che Bossi si era inventato, il figlio delle valli e della vita agra: “Hanno fatto così con noi ragazzi di paese – raccontava a Vimercati lui – ci hanno portato via da qua con ogni mezzo, ci hanno strappato con la dinamite dalla terra dei nostri padri”. E in questo passato che Bossi si era inventato, affioravano grandi ritratti utili per la sua battaglia. Una Nonna socialista, un padre cattolico … “Mia nonna si chiama Celesta. Ma la cosa più bella era il racconto che Bossi faceva di sè, una volta arrivato in vetta: “A quindici anni ero un ragazzo scapestrato che collezionava ragazzine e si divertiva con gli amici”. La data ufficiale di nascita della Lega, che inizialmente si chiamava Lega Autonomista Lombarda, è il 12 aprile 1984. Ma il movimento aveva iniziato i suoi primi passi un paio di anni prima, intorno a un capo morto in un incidente, Bruno Salvadori. Forse la Lega era nata dentro la forza barbarica di un celebre slogan: “La Lega ce l’ha duro–spiegava lo stesso Bossi – è un modo poetico per chi sa apprezzare certe cose. Era una metafora, abbastanza esplicita, del carattere della Lega. Ma non vorrei, adesso, che alla Lega si iscrivessero tutte le signore italiane …”.
Oppure era la Lega figlia di quel patchwork fra tutte le culture che da autodidatta Bossi aveva ingurgitato? “Il vecchio Marx – diceva con un po’ di vanagloria a Il Tempo nel 1992 – ci avrà pure insegnato qualcosa”. E che dire del carisma, del culto del capo? “Vedo che qualcuno dice che nella Lega comando solo io, ma non è vero”.
LA FOTO D’EPOCA E IL SIMBOLO
Oppure la Lega era l’invenzione immaginifica di quel simbolo, che Bossi ascriveva, con un altro aneddoto leggendario, al suo talento di fotografo? “Quale immagine più adatta, allora – mi dissi – dell’Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano? Corsi a fotografarla, e nell’occasione mi tornò utile la passione per la fotografia che avevo coltivato da ragazzo”. Una lavoro ispirato, quasi febbrile: “Riportai la foto su un foglio, ricalcaiilprofiloall’internodelcerchio, entro il quale disegnai anche i confini della Lombardia. Il tutto, stilizzato, divenne il simbolo della Lega”. Poco importa che un altro degli ex, Franco Rocchetta, disse perfido: “Aveva copiato il simbolo delle biciclette Legnano”.
Bossi in realtà era questo, soprattutto questo. Dava il meglio di sè nell’iperbole che in bocca a qualsiasi altro sarebbero suonate ridicole: “Noi diciamo stupidità che muovono l’Italia”. Era vero. Ma dietro c’era una biografia, e che biografia. C’erano stati i tempi grami. E poi quel primo matrimonio, poi dimenticato, le prime amicizie leghiste, la famiglia ripudiata quella di Pierangelo Brivio, marito di suo sorella: “Mia moglie ed io lo mantenevamo: gliel’abbiamo anche detto pubblicamente. E lui zitto. Gelato”. Ma l’invettiva più celebre, oggi del tutto dimenticata, era quello della sorella, Angela Bossi. Solo lei poteva ricordare pagine lontane e fallimentari come la fondazione della fantomatica “Unolpa”: nata prima della Lega “per staccare Varese dal resto della Lombardia”. Ma non era anche in questa incrostazioni di avventure fallimentari il segreto di un successo? A tutto questo mare di improperi Bossi rispose ancora una volta con la sua arma vincente di un tempo, il sorriso del ganassa ostentato a Mixer, intervistato da Giovanni Minoli: “Mia sorella Angela il leader? Sì, delle bistecche”. E lei, furibonda: “Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù”. Duello senza quartiere: l’ultima invettiva della Angela esplose in un
a intervista raccolta da Gian Antonio Stella, per Tribù: “Oooooh!!! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato!”. E i primi fondi? Tutti gli albori sono circonfusi nella leggenda. Sempre Brivio: “All’inizio i soldi al Bossi, per i suoi giornaletti, glieli dava Gheddafi”. Ma Brivio non era credibile perché non era che il primo degli apostati, il primo dei tanti che furono cacciati dal partitone leninista all’insegna dell’epurandosi-ci-si-rafforza. Non è stata questa anche l’ultima follia? Pensare di poter continuare a cacciare tutti, anche quando il suo carisma si era esaurito? Bossi non raccoglieva le insinuazioni, e con Vimercati parlava più volentieri del suo gruppo musicale: “Il mio complesso ebbe vita breve e grama. Io ero il meno dotato tecnicamente, ma avevo un certa fantasia: ero il paroliere del gruppo”.
E che dire della formazione umanistica? Lui la raccontava così: “La prima tappa della mia tappa di avvicinamento alla cultura – diceva Bossi – fu la Scuola Radio Elettra. Un corso per corrispondenza che spiegava il funzionamento di molte apparecchiature elettriche ed elettoroniche”. Chi mai potrebbe immaginare che quel Bossi si considerava professore? “Per pagarmi gli studi davo lezioni private. Non ero male come insegnante: la mia dialettica nei comizi nasce da lì”. Dove iniziava la verità? Dove il mito? “Evitai le serali, perché avrei impiegato altri anni ad arrivare in fondo. Mi dedicai anima e corpo agli studi; senza dimenticare le donne, però. … Sul finire degli anni Sessanta mi diplomai”. Il lavoro di autocostruzione dell’immagine era stato per certi versi titanico: “A quell’epoca ero molto ottimista, mi sentivo in grado di mantenere una famiglia, ormai la laurea era dietro l’angolo e pensavo di ottenere facilmente un posto, al termine di una carriera universitaria brillante anche se tardiva. Avevo in mente di diventare medico”. Peccato che sulla balla della laurea la prima contestatrice era stata proprio Gigliola Guidali, prima moglie di Umberto Bossi, che in una memorabile intervista a Oggi, raccontò: “All’inizio del 1975 decidemmo di sposarci in agosto. In aprile Umberto diede a tutti la grande notizia: mi sono laureato, presto avrò un impiego come medico. Non facemmo nessuna festa, ma corsi a comprargli un regalo, la classica valigetta in pelle marrone da dottore”. Mai usata. Però tutti i giorni usciva di casa. Finché Gigliola non scopre tutto: “Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo”. Una testimonianza che accostata alla sua compone un quadro fantastico: “Nel ‘77, se ben ricordo – aggiungeva Bossi – cominciai a collaborare con la clinica di Patologia chirurgica dell’università di Pavia, come esperto d’elettronica applicata in sala operatoria”. L’autorappresentazione non aveva limiti: “Continuavo a dilettarmi di elettronica, riuscii perfino a costruire un piccolo laser nel garage di casa”.
LE AMPOLLE SACRE, LA SECESSIONE, IL PARLAMENTO
Poi erano arrivate la Lega e l’incontro del destino, quello con Bobo Maroni: “Ricordate le prime scritte che inneggiavano alla Lega, quelle sui viadotti delle autostrade? Bene, erano trecento. Le ho fatte tutte io, con tanti chilometri in auto e non so più quante bombolette spray. Poi è arrivato Bobo”. Aggiungeva Maroni: “Bossi lo incontrai casualmente. La sera di una domenica. Io e la mia ragazza non sapevamo cosa fare, si andò da amici a Capolago e si finì in casa di Bossi. Lui si mise a parlare di cose incomprensibili, astruse. Mi annoiavo profondamente, che senso aveva sproloquiare di federalismo fra quattro provinciali annoiati, la sera di una domenica?”. Era sempre l’autopersuasione che rendeva tutto grande, sempre quella forza che sosteneva l’Umberto: “Resta il fatto che mentre raccontava di Dea, Dia, Digos, Cia, Sism, Sismi, Mossad e chi più ne ha più ne metta –raccontava ancora Tabladini- si passavano le serate dei dopo comizi in pizzeria a sentire le rodomontate su come tentavano di farlo fuori e su come lui era bravo a schivarli”. Bossi, ovviamente, si vedeva tutto intento al sacrificio: “Lavoravo come una bestia, nella commiserazione di parenti e amici. Vidi mia madre piangere, e non è certo una donna facile alle lacrime, quando mi trovò in canottiera a friggere le patate in un campetto di periferia”. E ovviamente sempre tornava a quel chiodo. La povertà, gli stenti, l’incorruttibilità: “Se avessi voluto farmi corrompere, avrei accettato una valigia di miliardi dalla Dc per distruggere la Lega”.
E aggiungeva ancora nel 1992: “Ho passato cinque lunghi anni in mezzo agli uomini del Palazzo. Una bella condanna, per uno come me che vuole liquidare i politicanti romani. Eppure è un calice amaro che mi tocca bere”. Adesso gli anni sono diventati quasi trenta. A Bossi faceva piacere alimentare il mito di un carisma sintetico, di un leader predone che seduceva le donne infischiandosene nel politicamente corretto: “La mia prima fidanzata? Non me la ricordo più. Ne ho avute parecchie di ragazzine, facevo lo sbruffone”. Chi erano i militanti della Lega, dopotutto? “La base della Lega è la fanteria bergamasca e bresciana, quella che un giorno ha fatto l’Italia. E io piaccio alla fanteria”. Vestivano tutti più o meno come lui, parlavano tutti più o meno come lui, erano tutti più o meno figli di quel sogno e di quelle visioni. Le ampolle sacre del Dio Po, la secessione, il governo Sole, il parlamento padano, le ronde, le camicie verdi, le pallottole, gli insulti ai magistrati, “il manico” agitato a Margherita Boniver, il tricolore gettato nel cesso, le tentazioni secessioniste: “Noi non amiamo più l’Italia. Se uno scopre che la propria donna è una zoccola può perdonare una scappatella 2 o 3 volte ma poi la lascia”.
Il Bossi di oggi invece è stato strangolato dal cerchio magico, reso afasico dall’ictus, sequestrato dalla sua seconda famiglia e dalle amorevoli cure di Emanuela, che gli ha fatto vivere la sua stessa sopravvivenza con un senso di colpa. E poi quei debiti esibiti come medaglie: “Ho passato anni infernali, quando si chiuse il giornale e ci rimasero sul gobbo venticinque milioni di debiti. Maroni pagò la sua parte ed ebbe la fortuna che lo chiamarono a militare così in qualche modo staccò”. E infine quel testamento morale, da capo guerriero, che adesso lo inchioda: “Io sono come un barbaro, porto la mia famiglia in battaglia con me. La mia donna e i miei figli devono sentire l’odore della polvere da sparo e il fragore metallico delle spade. La mia crociata è la loro crociata”. Adesso è accaduto il contrario. E l’odore di polvere da sparo si è dissipato: finiscono le visioni, i sogni, i miti, le parole tornano chiacchiere. E trent’anni di battaglie finiscono con l’assalto alla Lega e l’immagine di quel leader in camicia che se ne va. Tutto finito, come
lacrime nella pioggia.
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L’ultima sconfitta del comunista che amava Silvio
del 06 aprile 2012 di Adalberto Signore
Da giovane s’iscrisse al Pci e se n’è vergognato. Poi ha creato la Lega Nord. E dopo aver strapazzato pure Berlusconi ne è diventato l’alleato più fedele
Dimissioni irrevocabili. Che, avrà pensato qualcuno dei militanti che ieri erano in via Bellerio con le bandiere della Lega listate a lutto a rendere l’onore delle armi al Capo, arrivano guarda un po’ di Giovedì santo. Ad ognuno, insomma, il suo Giuda e il suo Giardino del Getsemani. Con la differenza che a tradire il Senatùr non è stato un solo discepolo ma quel «cerchio magico» fatto di familiari e famigli che ormai da qualche tempo lo tiene «sotto tutela». Cure e premure ovviamente disinteressate. Ma che ci consegnano quell’uscita di scena che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
Un Bossi che è la parodia del Bossi che fu, l’antitesi perfetta dell’Umberto che, per quanto gradasso nei modi e colorito nel linguaggio, sapeva convogliare la sua energia magari scomposta e arrivare al punto. Sempre o quasi. Che fosse il seggio al Senato nel lontano 1987, oppure l’aggregazione di tutte le diverse Leghe sparse per la cosiddetta Padania, sotto le insegne dell’Alberto da Giussano, nel 1989 fino allo sbarco a Palazzo Chigi nel 1994. L’Umberto ce l’ha sempre fatta a resistere e ricominciare, perfino dopo l’ictus del 2004 e le lunghe settimane passate in coma farmacologico. E ci è riuscito, per dirla alla romana, seguendo il principio del «chi mena per primo mena due volte».
La miglior difesa, per il Senatùr, è sempre stato l’attacco. In qualunque situazione. Quando mise insieme tutti i diversi rivoli autonomisti sparsi per il Nord, facendo fuori uno dopo l’altro chi solo sperava di ritagliarsi un ruolo nella nascitura Lega Nord. Roberto Gremmo, Franco Castellazzi, Franco Rocchetta, Marilena Marin, Luigi Negri e tanti altri: tutti giù come birilli prima che potessero accorgersi di cosa stava succedendo e spesso con accuse francamente incredibili. Di Gremmo, per dire, raccontò che l’avevano fotografato i Servizi mentre si stava facendo fare «un lavoretto» da un marocchino in un cinema di Torino.
Ed epocale fu la rottura con Gianfranco Miglio, quando i due si mandarono a quel paese in uno scambio d’insulti pirotecnico. «È un minchione arteriosclerotico, una scoreggia nello spazio», sentenziò il Senatùr.
Sempre all’attacco, dunque. E senza girarci troppo intorno. È il 1996 quando a Porta a Porta Ciriaco De Mita disserta sulle riforme istituzionali e si becca un sonoro «De Mita, taches al tram». Ma l’approccio è lo stesso anche nella strategia politica. C’è chi frena sul federalismo? E allora via con il Parlamento del Nord e con la secessione e – non dovesse bastare – allora si arrivano ad evocare le migliaia di baionette pronte a sparare nelle valli della Bergamasca.
È lo stile Braveheart che lo ha contraddistinto fino al 2004. Perché poi i militanti del Carroccio sapevano che in fondo i toni e le parole erano una cosa e la Lega un’altra. Tanto che, nonostante le sparate e l’indignazione di chi era sempre in prima fila a chiamare in causa buona educazione e xenofobia, non si ricorda un leghista che abbia partecipato ad una rissa che sia una. Anzi, gli unici pugni sono volati in via Bellerio il 18 settembre 1996 quando la Digos fece irruzione nella sede milanese del Carroccio e ne uscì fuori con una manciata di volantini e spillette e Roberto Maroni sdraiato a terra. Di baionette neanche l’ombra, tanto che pure uno che la Lega non l’ha mai amata, come Pier Ferdinando Casini, non esitò a dire che «si era fatto un grande favore a Bossi».
Erano i tempi del Senatùr geniale e genuino. Quello che i soldi li disprezzava tanto da buttarne una valanga per mettere su nel 1980 il semiclandestino giornaletto Nord Ovest e qualche anno dopo il foglio Lombardia Autonomista.
Era il Bossi che aveva fiutato il primo rivolo di antipolitica strisciante, l’insofferenza del Nord verso i Palazzo romani e che non a caso usava il linguaggio «del popolo» per tenersi ben distante dai gessati del Pentapartito. «Né di destra, né di sinistra», amava ripetere. Anche se l’Umberto nel 1975 si era presentato alla sezione del Pci di Verghera (in provincia di Varese) e aveva versato cinquemila lire per iscriversi. Una circostanza che Bossi negherà sempre, anche se a testimoniarla esiste ancora il registro dei tesserati (nella foto sotto). D’altra parte, erano gli anni in cui il futuro Senatùr manifestava a pugno chiuso contro Pinochet e per il «Cile libero» (sempre nella foto sotto).
E dal Pci, passando per la Lega, Bossi è arrivato fino a Berlusconi.
Ha giocato all’attacco fino al 2000, tanto da far saltare il governo a fine ’94 e poi sparare bordate per anni contro l’ex alleato definito nei modi più coloriti, da «povero pirla» a «mafioso di Arcore». Sono tornati insieme e nel 2001 di nuovo a Palazzo Chigi. E da allora il rapporto è rimasto saldo, anche dal punto di vista umano e personale. È il Senatùr, però, a non essere rimasto in sella dopo l’ictus del 2004. Perché invece di
accontentarsi di aver vinto la battaglia contro una morte che tutti davano per scontata è voluto tornare in pista ed è iniziato ad essere quasi una caricatura di se stesso. Perché se perfino un one man show come il Cavaliere ha deciso ad un certo punto di fare un passo al lato e lasciare la segreteria del partito ad Angelino Alfano è stato un po’ folle ostinarsi a voler essere l’ultimo dei Mohicani nonostante gli anni e gli acciacchi sempre più vistosi.
Ed è questo, forse, il tradimento più grande di chi gli è stato vicino e avrebbe dovuto consigliargli di farsi da parte da vincente. Non di dimettersi sull’onda di uno scandalo destinato ad investire la sua famiglia e parte dei vertici della Lega. Una nemesi al contrario. La resa silenziosa e un po’ schiva di chi ha sempre combattuto e giocato in attacco
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Mister canottiera tradito dagli affetti
del 06 aprile 2012 di Vittorio Feltri
La Lega se l’è tolto dai piedi issandolo su un altare. Termina un’era e non sappiamo cosa ci aspetta
Vedere Umberto Bossi avviarsi all’uscita dalla Lega desta malinconia. Ha 70 anni, non è vecchio, ma è come se fosse vecchissimo. Ha avuto una vita spericolata, maleducata, una vita che non è mai troppo tardi, una vita esagerata. Talmente esagerata da non essere mai stata raccontata in una biografia, benché su di lui ne siano state scritte tante, tutte lacunose, piene di buchi. Studente svogliato, sognatore, solitario. Un uomo così così. Che ne ha viste e passate di ogni colore, attraversando esperienze estreme: su e giù per le valli a improvvisare comizietti nelle osterie, convincendo gli avventori che la colpa dei guai nordici fosse dei terroni. Lo prendevano per matto, all’inizio, ma lo ascoltavano in tanti, sempre più numerosi e incuriositi da quel tipo strambo e un po’ guascone.
Poi un successo, piccolo piccolo: l’ingresso in Parlamento nella Roma ladrona. Sembrava conclusa lì: una legislatura e via, tornare a casa a cercarsi un lavoro vero. Macché, alla seconda tornata il Fenomeno da baraccone guadagna una quantità impressionante di voti. L’ascesa è irresistibile. Ma arriva la fatidica doccia fredda che segue immancabilmente quella calda: Bossi è colpito da un infartino, che lui definisce preinfarto, dandosi arie da quasi medico, quale in effetti è: solo quasi. Rientrato in pista e, forte dell’affermazione ottenuta alle elezioni regionali (Lombardia), si getta nella mischia: infuria Mani pulite, il pentapartito è in crisi, c’è un clima da rivoluzione.
La gente vuole il nuovo. «Il nuovo che avanza» diventa uno slogan che non ha riscontro nella realtà, ma tutti si illudono che avanzi davvero e molti lo identificano nel leader paesano in canottiera, che arringa folle straripanti a Pontida. La caduta della Prima Repubblica è anche merito, o demerito, della Lega. Memorabile un faccia a faccia televisivo tra Bossi e Ciriaco De Mita. Questi parla ininterrottamente un quarto d’ora sfoggiando un eloquio arzigogolato e ostico. Il Senatùr ascolta in silenzio, non batte ciglio, non tradisce alcun sentimento. Quando il microfono è suo, esordisce con questa frase, rivolta all’interlocutore sussiegoso: «Ma tachés al tram» (attaccati al tram).
Mai nessuno era riuscito a smontare con un verbo e un sostantivo l’intellettuale della Magna Grecia. Da morire dal ridere. Sono soltanto episodi, ma servono per appassionarsi alla vita spericolata del signor Canottiera, che non ha cercato di nascondere le sue origini provinciali, direi rurali, anzi le ha ostentate, consapevole che il contrasto tra la sua schiettezza villana e il birignao dei politicanti favorisse lui nel giudizio degli elettori. Aveva ragione.
Quanto avvenuto dopo, con la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, è stato narrato in tutte le salse dai media. Occorre aggiungere che il centrodestra si è imposto sul centrosinistra con l’apporto decisivo del Carroccio, dal quale Bossi scende ora nel peggiore dei modi, addolorando non solo la base padana: anche l’amico Berlusconi non potrà più contare su di lui, almeno non quanto aveva fatto fino ad alcuni mesi orsono. Andiamo giù piatti. Termina un’era, bella o brutta che sia stata. E non sappiamo cosa ci aspetti.
I detrattori dei nordisti oggi hanno gioco facile. Compiaciuti, affermano che la Lega è un partito uguale agli altri: con i suoi furfanti, i furbetti e i delatori, per tacere degli arrampicatori indulgenti con se stessi e rigorosi con gli altri. Eppure il malandato Senatùr ha mille attenuanti, la più importante delle quali è la malattia micidiale che lo ha dimezzato, reso vulnerabile, bisognoso di assistenza e incline ad appoggiarsi a che gli sta vicino: il cosiddetto cerchio magico e la famiglia.
Lo stato di necessità è stato fatale per il Fondatore ferito. Si è dovuto affidare e fidare delle persone a lui care, che non gli hanno fornito un buon servizio. Lo hanno sopraffatto, pessimamente consigliato, spinto allo sbaraglio.
Emergono dall’inchiesta dettagli imbarazzanti: soldi di qua e soldi di là, miserie umane e imbrogli che attribuire a Bossi, conciato com’è,sarebbe crudele oltre che ingiusto. La verità è destinata a venire fuori, ma ci vorrà del tempo. Intanto, il vecchio e acciaccato leader molla il comando. Lo fanno presidente, figura inesistente fino a ieri nella Lega. Significa che i suoi non se la sono sentita di uccidere il padre, si sono accontentati di toglierselo dai piedi, issandolo su un altare davanti al quale nessuno pregherà più per ricevere la grazia di un posto. Questa è la gloria del mondo: sali in alto, voli, ti illudi di essere un’aquila, poi un pistola qualunque con la fionda ti
abbatte come un piccione. Voglio pensare che Bossi non abbia ingannato le camicie verdi, ma sia stato ingannato dagli affetti. E sia quindi perdonabile. Un leader malato è per definizione debole. Lasciamolo in pace.
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Bossi come Mussolini, questo è il 25 luglio del Senatùr
del 06 aprile 2012 di di Giampaolo Pansa
Come il Duce, il leader leghista è travolto dai suoi errori e dalla corte di profittatori che hanno sfruttato la malattia per prendersi il partito
Vi ricordate del 25 luglio? Prima o poi, i potenti troppo sicuri di sé incontrano questa giornata delle streghe e vanno a sbattere. Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini cadde, sfiduciato dal suo stesso partito, e fu arrestato da un Savoia che lui disprezzava, il re Vittorio Emanuele III. I paralleli personali sono sempre molto rischiosi. Umberto Bossi non è certo il Duce. Eppure anche per il Senatur è scoccata l’ora più tragica: quella delle dimissioni. Un gesto insolito nella casta, che può segnare la fine di un lungo percorso politico. Iniziato nel 1984 con la fondazione della Lega lombarda e in apparenza destinato a durare per l’eternità.
Errori terribili – Forse mi lascio prendere la mano da un confronto storico. Eppure vedo molte analogie nei tramonti di Mussolini e di Bossi. Il leader fascista venne travolto da una serie di errori terribili. Il primo fu di trascinare in guerra un paese impreparato a quell’avventura disperata e sanguinosa. Il secondo fu di non valutare sino in fondo la crisi del regime, testimoniata dagli scandali e dall’affarismo di troppi ras. Convinti di potersi permettere qualsiasi illecito pur di accrescere il proprio potere e le ricchezze che ne derivavano. Anche il Senatur ha commesso molti errori, sia pure su scala assai più modesta. Se le tre inchieste giudiziarie che mettono nei guai la Lega sono fondate, il primo passo falso è stato quello di confondere il pubblico con il privato. Per farla corta, Bossi ha permesso che la propria famiglia si giovasse dei finanziamenti arrivati dallo Stato al suo partito. Un furto bello e buono. In questo modo, ha lasciato crescere un retroterra di favori e di regalie che oggi, raccontati dalle cronache giudiziarie, fanno intravedere un piccolo mondo di profittatori, un retroterra di egoismi meschini. Dai restauri della villa di Gemonio, alle spese per comprare ai figli diplomi di studi, sino all’acquisto o all’utilizzo di automobili lussuose. Il tutto all’interno del cosiddetto Cerchio Magico, un clan famigliare dominato da due matrone, la Moglie e la Badante politica, figure degne di un cinepanettone.
L’inizio della fine – Perché il leader della Lega, malgrado la fama di politico intelligente e astuto, non ha saputo evitare questa trappola? Ci vorrà un po’ di tempo, e altri chiarimenti giudiziari, per poter dare una risposta completa. Tuttavia qualche spiegazione s’intravede sin da oggi. La prima riguarda il gravissimo malore che nel marzo 2004 sembrò mettere fuori gioco per sempre il Senatur. L’ictus era pesante, ma lui riuscì a sconfiggerlo. Rivelando una resistenza fisica e una tenacia di carattere insoliti per la sua età di allora, 63 anni. Ritornato alla politica attiva nel marzo 2005, Bossi deve aver pensato di essere più forte della morte. Per la malattia, aveva pagato un prezzo molto alto. La bocca andava per conto suo. I movimenti del corpo erano rallentati. Le parole gli uscivano a stento, diventando spesso un borbottio poco decifrabile. Al suo posto, chiunque altro si sarebbe ritirato dalla politica attiva, un mestiere che può essere stressante. Ma lui decise di rimanere alla testa della Lega. Chi lo osservava da tempo ha subito compreso che il Senatur era cambiato, e non in meglio. Appariva più prepotente di prima, senza freni, pronto all’insulto volgare nei confronti degli avversari, considerata gentaglia da minacciare o da irridere. Un politico capace di straparlare a vanvera, di sparare cavolate assurde che i militanti accoglievano come il vangelo.
Ma nessun partito si può guidare in questo modo. Il motivo è quasi banale: quando il leader è fuori controllo, anche i sottoposti perdono la testa. Cominciano a pensare che tutto diventi lecito. È quello che deve essere accaduto al tesoriere leghista, l’ormai famoso Francesco Belsito: un omaccione con l’aspetto del guardaspalle scartato per eccesso di peso.
Belsito – L’altra spiegazione del crac odierno risulta evidente nella figura di questo personaggio, l’alter ego finanziario del Senatur. Agli esordi, Belsito era un tizio qualsiasi che aveva iniziato la propria carriera politica da autista di un parlamentare. Via via è cresciuto sino a ricoprire delicati incarichi pubblici, come la vicepresidenza della Fincantieri. E a diventare il custode, al tempo stesso obbediente e incontrollato, del tesoro leghista: un malloppone di milioni di euro, versati dallo Stato, ossia da noi contribuenti, come rimborsi elettorali. Sappiamo bene che la classe dirigente leghista non è tutta uguale a Belsito. Ha saputo esprimere ministri di grande efficienza, sindaci sperimentati, parlamentari avveduti. Ma purtroppo per la Lega oggi le figure dominanti sono altre. Nei partiti spesso la selezione delle prime file ha esiti pessimi. La patologia diventa la norma.
L’abbuffata – È così che le poltrone più delicate se le pappano gli inadatti. Non conosco se la senatrice Rosi Mauro, la badante politica dell’Umberto, abbia incassato fondi illeciti. Però mi sono sempre stupito che questa signora pugliese sulla cinquantina, sanguigna ed esagitata, già sindacalista in minigonna, ricopra la funzione di vicepresidente del Senato. Qualcuno potrà ribattere: questa è la politica, bellezza. Nelle democrazie non sempre il potere si accompagna alle qualità necessarie a esercitarlo nel modo giusto. Comunque c’è un limite a tutto. Quando il confine tra la saggezza e l’errore non viene rispettato, può accadere qualsiasi disastro. Come la storiaccia che rischia di travolgere la parrocchia del Senatur. Ma che deve essere di monito per tutti i partiti. All’inizio di marzo, avevo scritto su Libero che la Lega correva il rischio di essere l’unico movimento politico in Europa guidato da un uomo fuori di testa. E mi ero domandato se non fosse giusto costringere Bossi a ritirarsi. Nessuno si è provato a convincerlo. Ma quando arriva un 25 luglio sono i fatti a decidere. Per tutti. È così che ieri Bossi si è dimesso. Molti, compreso il sottoscritto, erano convinti che non l’avrebbe mai fatto. Però l’incredibile è accaduto. Adesso non resta che aspettare quello che avverrà in Padania. Una regione inesistente, ma spesso infelice.
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Bossi, dai garage a palazzo Chigi: il nordista che sognava la Padania
del 06 Aprile 2012 di Mario Ajello
Gli inizi, o prima ancora degli inizi, era soltanto un ragazzo che sognava di vincere il festival di Castrocaro, con il nome d’arte di Donato e questo ritornello che alla luce delle attuali vicende politico-finanziarie di Umberto Bossi sarebbe potuto apparire premonitore: «Noi siamo venuti dall’Italy. / Abbiamo un piano / per far la lira. / Entriamo in banca col caterpillar / E ci prendiamo il grano». Guai però, adesso, a maramaldeggiare su un leader deposto.
Il garage.Anche se tra sigari, canotta e Cocacola, il condottiero nordista partito dai garage voleva disfare l’Italia e ora vive una grande sconfitta esistenziale e politica.
La sua sconfitta esistenziale e politica sta proprio nel fatto che adesso la Penisola è forse più unita rispetto a quando lui, alla metà degli anni ’80, come un vitellone di provincia, cominciò a tirare tardi nel bar di Bobbiate comiziando sulla «liberazione del Nord» da Roma ladrona e maledicendo i terun.
Bar dello sport. Bossi è stato comunque un unicum nella storia italiana. E questo suo essere rimasto in fondo – anche dopo essere diventato un inquilino fisso del Palazzo e un prototipo perfetto di politico da ultra-casta come è ormai chiaro in questi giorni – un maschio straparlante da bar sport sarebbe stata una componente del suo successo da everyman e un elemento della sua leggenda e del suo bluff. Bossi, da quando è diventato per la prima volta senatore nell’87 fino al crepuscolo politico di questi ultimi anni cominciato con l’ictus del 2004, ha inventato la fanta geografia: favoleggiando dell’inesistente esistenza della Padania dove ha perfino piazzato degli improbabili ministeri disertati da tutti e subito chiusi da Monti.
Gemonio.Ma ha anche rovesciato la geo-politica: dando centralità a luoghi periferici, Gemonio, Gavirate, Samarate (e anche Lorenzago dove stava per nascere in una baita una nuova Costituzione italiana fortemente segnata dal tratto dell’Umberto) e imponendo nell’agenda del Palazzo il tema della questione settentrionale e del federalismo (conditi nel suo caso da deliri secessionistici in realtà rifiutati anche nelle sue contrade). Ha stravolto a colpi d ruggiti e di parolacce la grigia compostezza del linguaggio politichese, degradando il discorso pubblico tra la sottovalutazione di chi (molti, troppi e non solo Berlusconi) derubricava a ragazzate o a pittoresche esuberanze le sue minacce del tipo: «Ho pronti trecentomila bergamaschi armati per distruggere Roma ladrona» o «il Nord sta oliando i suoi Kalashnikov» o (contro Casini) «macelleremo i porconi democristiani» o (contro Fini) «andremo a prendere i fascisti casa per casa». Ha rivoluzionato la mimica (il gesto dell’ombrello, la pernacchia, il dito medio alzato) e la fisiognomica del capo partito (la sua saliva agli angoli della bocca, gli occhi minacciosi da dietro le lenti).
Il celodurismo.Ha fatto irrompere il corpo nella politica, portando in giro il suo fisico piegato dalle conseguenze dell’ictus ma prima ancora mostrando i muscoli (non molto abbondanti in verità ma politicamente minacciosi) che uscivano dalla canotta popolana che ostentò nell’estate del ’94 in Sardegna come annuncio della brutta fine che avrebb
e fatto fare di lì a pochi mesi al governo di Berlusconi.
Insomma, è stato uno tsunami il Senatur. E insieme una maschera tragicomica che nessuno mai, anche a sinistra, avrebbe dovuto sottovalutare. Negli ultimi anni di prostrazione fisica e di perdita di contatto con la realtà, i suoi compagni di partito, se gli avessero voluto bene o fossero abituati alle pratiche della democrazia, invece di mummificarlo e ingannarlo avrebbero dovuto spingerlo al ritiro. Che alla fine è traumaticamente arrivato e Bossi non è riuscito più a obbedire al monito di quella pizza a lui dedicata e denominata Tegn dur, nella pizzeria Motta di Varese a lui molto cara da sempre, e non ha tenuto duro mollando tutto ma troppo tardi. Così si conclude un copione soltanto all’apparenza folkloristico, e di fatto determinante purtroppo per le sorti italiane nell’ultimo ventennio, colorato di verde, animato dai raduni sul sacro pratone di Pontida, dai riti neo-pagani sulle rive del Dio Po, dalle mitologie celtiche, dalle ampolle e da Braveheart più Alberto da Giussano e da tutto il resto di quella evidente forma di alterazione della realtà che s’è imposta nell’immaginario italiano. Anche in quello che la detesta e mai si è abituata agli spropositi espressivi, al celodurismo machiettistico («Noi c’abbiamo il manicoooo») e agli improperi: dal lontano Berluskaz al «Bersani si prepari a farsi infilare le chiappe dalla Lega».
Il calcolo.Nella presunta follia del Senatur mai nulla di irrazionale, e tutto di calcolato, s’è potuto riscontare finchè il capo tribù stava in salute ed era in grado di agire allo stesso tempo come tessitore e contudente (non è il solo paradosso che lo riguarda). Il 5 aprile del ’92, giusto vent’anni fa, la Lega ottiene il suo grande successo elettorale, porta 80 deputati e senatori in Parlamento. Cinque anni prima, trangugiando un chinotto, Bossi lo aveva previsto e ora può esultare: «Da questo momento nessuno riuscirà a farci togliere dalle palle». Se pochi anni prima friggeva le patate nelle feste strpaesane, cantando in slang Osteria numero dieci o Osteria numero mille, ora recita la parte del barbaro sognante sulla grande scena nazionale, per illudere e per illudersi gridando alla luna e oscillando tra potere, sottopotere e improbabili guerre d’indipendenza, tanto per far scaldare il cuore dei suoi seguaci negli alpeggi e nelle baite.
Eccolo a Romaladrona seguito dal codazzo dei suoi eletti nelle vie intorno a Montecitorio. O che addenta gelati in via del Vicario. O che, siamo nel giardino fiorito di Arcore, passeggia con Berlusconi che gli mette la mano sulla spalla per rabbonirlo e lo chiama «Umbertone».
L’ictus.Ma quando con il Cavaliere litiga gli dice «stai attento, ti faccio sentire il rumore del rullo del revolver». Ha provato pure l’ictus a fermarlo. Così lo racconta la moglie siciliana, Manuela (la quale in questi anni di malattia del Senatur a dispetto del maschilismo celodurista e dell’anti-meridionalismo dei leghisti è quella che ha fatto e disfatto tutto nel partito lumbard): «Umberto ha avuto la crisi alle sei e mezza del mattino. Stavamo a letto. Non riusciva a smettere di tossire, pensavamo a una bronchite e invece stava morendo». Fuori gioco lui, a sostituirlo fu un quadriumvirato (mentre adesso c’è il triumvirato) ma soprattutto un familismo che ora si scopre amorale: proprio come quello che i sociologi hanno sempre attribuito agli italiani del Mezzogiorno. Una volta si dice gandhiano, tante volte dice che «con il tricolore mi pulisco il c….»: e gli è sempre andata bene così. Poi, però, il crepuscolo è crudele per tutti e il familismo e il cerchio-magicismo sono intollerabili anche se scelti dal caro leader. Provocando le recenti contestazioni al mito Bossi, proprio da parte dei padanisti duri e puri. Si passa dal tegn dur al vattene. E quella pallida immagine dei «Bossi di seppia», che circola sul web e gioca con Eugenio Montale, rende bene l’idea del carisma evaporato e irreplicabile.
. Un anno dopo, il 1984, davanti un notaio di Varese, l’autonomista di Cassano Magnago e la sua nuova compagna, Manuela Marrone, depositano l’atto di fondazione della L
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Quotidiano. Net
Bossi, il copione peggiore
del 6 aprile 2012 di Bruno Vespa
– “”Roma, Polo, Roma Ulivo!””, gridò Umberto Bossi nello studio di ‘Porta a porta’. Lo gridò contro Berlusconi e Fini che stavano alla sua destra, ma anche contro D’Alema e Dini che stavano alla sua sinistra. Era la fine della campagna elettorale del ’96, Bossi aveva fatto cadere un anno prima il governo Berlusconi dopo aver avuto da Oscar Luigi Scalfaro la garanzia che non avrebbe sciolto le Camere. E adesso poteva permettersi di farsi portavoce del disagio del Nord gridando «Roma ladrona!».
Prese il dieci per cento dei voti e mandò il Cavaliere per cinque anni all’opposizione. Quattro anni prima, nel ’92, la Lega aveva fatto irruzione in Parlamento con quaranta deputati e venti senatori, segnando la fine della Prima Repubblica e scuotendo il palazzo sordo ai malumori della Padania. Nessuno credeva che lo studente in medicina fuori corso conquistato nel ’79 alla causa autonomista da Bruno Salvatori, leader dell’Union Valdotaine, avrebbe sconvolto la vita politica italiana.
Salvatori morì poco dopo in un incidente d’auto, lasciandogli 24 mil
ioni di debiti e l’idea federalista. «Quando mia madre mi vedeva friggere il pesce alle prime feste della Lega Lombarda piangeva», mi raccontò Bossi. La signora sognava un figlio medico e si trovava un rivoluzionario spiantato. Ma nell’87 il ragazzo scapestrato entrava in Parlamento, nel ’90 stravinceva le elezioni regionali. De Mita, che lo considerava un Giannini qualunquista di passaggio, sentenziò: «Le Leghe sono il cancro della democrazia». «Un fenomeno eversivo», aggiunse Giuliano Amato. Ma Craxi mi confessò ad Hammamet: «Non avevamo capito niente».
Le ‘dimissioni irrevocabili‘ annunciate ieri pomeriggio in via Bellerio dal segretario federale della Lega («Qualunque nome porti, gli sbaglia paga») segnano la fine di venticinque anni di storia politica italiana. E la segnano nel modo peggiore, gettando nella polvere quella famiglia che era stata sempre il vanto e il punto di forza di Bossi. C’è da restare sbalorditi. Sono stato tre volte a casa sua nell’arco di quindici anni. Raramente ne ho visto una più modesta: mobili da pochi soldi, manifesti, foto, ex voto alle pareti. Molti politici fanno vacanze alle Maldive, Bossi si concedeva al massimo Ponte di Legno. E le trattorie in cui mangiava (poco) erano semplicissime. Dunque? Quando gli chiedevo che voleva fare da grande, Renzo (il ‘trota’) mi rispondeva sempre a mezza bocca con frasi vaghe. La tenerezza del padre gli è stata fatale.
Finito nella polvere nel modo peggiore, protagonista di battute grevi e di tante scelte politiche discutibili, Bossi merita tuttavia l’onore delle armi. Se l’Italia è diventata bipolare lo dobbiamo anche a lui, alla stravagante alleanza con Berlusconi e con Fini nel ’94 che durò poco ma ha segnato un’epoca. Politico avveduto, capì nel ’99 che la secessione non si sarebbe mai fatta e andò a Canossa da Berlusconi.
In volo da Roma a Milano, qualche giorno prima di Natale, firmarono all’insaputa dello stesso Maroni il ‘patto di Natale’ che consentì al centrodestra di vincere le regionali del 2000 e le politiche del 2001. Restato accanto a Berlusconi nel 2006 e nel 2008, se n’è allontanato con la nascita del governo Monti. Lo sconcerto dei militanti punirà la Lega alle amministrative del mese prossimo dirottando i voti tra l’astensionismo, un po’ di PdL e molto grillismo. Nel 2013 comincerà un altro film. Ancora l’altra sera Alfano ha detto che riprenderà il dialogo con la Lega. Con quella di Maroni, l’uomo con cui – se Berlusconi si fosse dimesso sei mesi prima – avrebbe formato un governo. Ma in un anno può davvero accadere di tutto.
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La caduta degli idoli
del 06 aprile di Ezio Mauro
Cadono ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l’immagine di un’Italia da comandare, più che da governare. Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega, rovesciando sul Capo fondatore quelle accuse spedite per anni contro “”Roma ladrona”” e contro lo “”Stato saccheggiatore””. I ladroni la Lega li aveva in casa, anzi a casa Bossi. E il saccheggio lo aveva in sede, a danno del denaro dei contribuenti.
La Lega è il più vecchio partito italiano, nato nell’agonia pentapartitica della prima repubblica, sopravvissuto e cresciuto nella bufera di Tangentopoli che ha cambiato per sempre la geografia politica. Poi alleata con l’altro figlio legittimo della prima repubblica, quel Berlusconi protetto dal Caf, abile più di tutti a infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite nel muro del sistema, e a ereditarne il comando come presunto uomo nuovo, esterno ed estraneo.
L’unione di convenienza dei due leader – al di là della rottura del ’94, quando Bossi tuona contro “”il mafioso Berlusconi”” e la sua “”porcilaia fascista”” – via via si rinsalda su una prassi e un istinto ideologico, che dà vita all’esperimento italiano di una “”destra reale””, o realizzata.
Qualcosa di inedito nelle culture di governo dell’Occidente, nel suo mix populista di potenza economico-finanziaria e paganesimo localista, di cesarismo carismatico e telematico e di fazzoletti verdi agitati nel perimetro padano, eccitato dal federalismo alla secessione, fino alla xenofobia.
Quella destra “”reale”” ed estrema che da oggi, dopo la caduta di Bossi e Berlusconi, non vedremo mai più nella forma con cui l’abbiamo conosciuta.
Bossi viveva se stesso come il Capo indiscusso e perenne di una potenza straniera, che aveva ricevuto dalla decadenza del sistema italiano di rappresentanza politica l’occasione di governare l’Italia come una colonia da spolpare. Parlava contro lo Stato viaggiando sulle sue auto blu, oltraggiava il tricolore rappresentandolo nelle istituzioni, attaccava la Costituzione dopo averle giurato, da ministro, fedeltà repubblicana.
Tutto ciò in combutta con un leader a cui permetteva e perdonava tutto, scandali, vergogne, eccessi ed errori, in cambio di rendite di posizione parziali per sé e per il suo gruppo dirigente. Con il miraggio eterno della terra promessa, la Padania autonoma nello Stato federale e nemico, e la promessa finale (in cambio dei voti sulle leggi ad personam) della più prosaica e concreta Lombardia, per il dopo-
Formigoni ormai alle porte.
Invece è arrivato il ciclone dei rimborsi elettorali usati a fini di famiglia. Si è finalmente capito di che pasta era fatto quel “”cerchio magico”” che proteggeva e ingabbiava il Capo, e quale cemento lo univa, lubrificandolo a spese del contribuente italiano. I soldi dello Stato, per Bossi e i suoi, erano come i beni di un Paese occupato, che bisogna spogliare.
Il “”cerchio”” alimentava se stesso, tiranneggiando il tesoriere, e muniva così il suo potere. Dentro il cerchio, la famiglia lucrava per sé, piccoli e grandi vizi, la casa del Capo e l’auto del figlio, le spese minute per tutti, e soldi – dicono le carte – anche per quel Calderoli che oggi pretende di sopravvivere a se stesso e alla vergogna nel ruolo di reggente, insieme con Maroni e Manuela Dal Lago.
La verità è che la Lega non c’era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente.
All’impedimento fisico si è accompagnato una sorta di ottundimento dell’istinto, quindi della manovra politica, alla fine dell’autonomia e della libertà. Da scelta negoziata, Berlusconi è diventato necessità, appoggio, rifugio. Nato come partner, libero e autonomo fino ad andarsene e tornare, il Bossi malato è finito nella tasca capiente e sapiente di Berlusconi, prigioniero volontario di un’alleanza come assicurazione senile di potere.
Il “”cerchio magico”” ha funzionato da coro greco, impedendo che l’autonomia perduta dal Capo venisse recuperata ed esercitata dal partito, tenuto in minorità permanente, costretto a ricevere e ad ascoltare dai sacerdoti del “”cerchio”” la traduzione delle parole d’ordine del Capo, elevato (in realtà ridotto) da leader a totem. Un Bossi totemico, simbolo indebolito di se stesso, che non governava ormai più, ma esercitava un potere mediato attraverso il “”cerchio””. Che in questo modo aveva in mano il controllo del partito ed impediva la crescita di ogni discussione, di qualsiasi articolazione di leadership ausiliaria, di tutte le ipotesi di delfinato. Il punto è che il “”cerchio magico”” si è impadronito della malattia del Segretario. E quindi, come in un brutto romanzo sudamericano tradotto in dialetto padano, ha cercato di perpetuare l’immobilismo totemico di un potere bloccato ma refrattario ad ogni soggetto esterno, per esercitare così un comando derivato.
Come in tutti i sistemi impaludati e stagnanti, anche nelle acque ferme del vertice leghista si è fatta strada la corruzione, probabilmente come strumento di arricchimento privato, dei singoli membri e della famiglia reale, ma anche come mezzo di potere e di controllo nei confronti degli altri, avversari o pretendenti. Per la Lega, e per Bossi stesso, è il cappio padano che cambia collo, e dalle odiate grisaglie di Stato e di regime passa indosso alle camicie verdi.
Peggio di una tangente, dei soldi corruttori di qualche imprenditore in cambio di un appalto, se si può fare una scala in queste cose: perché si tratta di denaro pubblico, finanziamento dello Stato, soldi di Roma, che il “”cerchio”” e la famiglia (culmine sacro e pagano di tutto) intascavano a loro profitto, truffando tre soggetti in un colpo solo: lo Stato, i contribuenti, e il partito, derubato da chi lo comandava.
La stessa retorica leghista viene annichilita da questo scandalo, che si racconta al contrario delle leggende bossiane, perduta quella purezza che dava forza e credibilità alla denuncia contro gli sprechi “”romani”” e lo Stato burocrate, oppressore delle sane abitudini padane. Ecco perché Bossi si è dimesso, ed ecco perché – soprattutto – le dimissioni erano inevitabili, e molto probabilmente non basteranno.
Passata da più di un anno dalla guerra di secessione a quella di successione (che Maroni non ha mai dichiarato formalmente, per non uccidere politicamente Bossi con le sue mani, ma sentendosi l’unico erede), adesso la Lega deve giocare una battaglia di sopravvivenza, che riguarda tutti. Non è credibile che gli altri capi e capetti (da Calderoli a Castelli allo stesso Maroni) non sapessero. I militanti ripeteranno l’ultima leggenda, quella della cospirazione esterna.
Ma gli elettori, i simpatizzanti, si sentono definitivamente truffati da un gruppo dirigente confiscato da un piccolo cerchio di potere con pratiche umilianti, che comandava per rubare – come nella peggiore Tangentopoli – e rubava per continuare a comandare.
Resta il problema enorme della rappresentanza del Nord, storica, culturale, politica. Rappresentanza simbolica e di interessi concreti. Non è affatto detto che questi interessi debbano coniugarsi per forza alla xenofobia, alle paure per la globalizzazione, all’invettiva spaventata contro l’euro e l’Europa.
Un’altra rappresentanza è possibile, se i partiti avranno la forza, la capacità e l’ambizione di concorrere per dare ascolto e soddisfazione alla parte più forte e moderna del Paese, liberandola dei falsi miti, unendola alle istituzioni e al destino repubblicano e nazionale. Facendole capire ch
e la politica non è una cosa sporca, l’Europa è il nostro destino, e destra e sinistra – finalmente – non sono soltanto le due sponde del sacro Po: restituito ieri da falso nume a fiume, come accade nel Paese reale in cui vorremmo vivere.
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Ora un’epoca è davvero finita
del 06 aprile 2012di Stefano Folli
Nell’ora dell’abbandono si può e forse si deve riconoscere a Umberto Bossi l’onore delle armi. Ciò che lui negherebbe a uno qualsiasi dei suoi avversari. Sta di fatto che in un Paese in cui le dimissioni non rappresentano un’abitudine diffusa, il vecchio autocrate ha saputo recuperare il senso della realtà smarrito per troppo tempo.
E ha compiuto un passo dignitoso, purché sia davvero irrevocabile e non serva solo ad alimentare nuovi intrighi di palazzo secondo il dualismo amici-nemici.
Certo, l’uscita di scena è conseguenza diretta di una vicenda che più squallida non potrebbe essere. Triste fine per l’uomo che aveva inseguito un’intuizione temeraria unita a un’ambizione fallimentare: dar corpo a una misteriosa identità «padana», dichiarare superata la nazione italiana, alimentare una confusa mitologia pseudo-celtica al limite del razzismo. Ma anche imporre nell’agenda politica la «questione settentrionale», restituire al Nord una parte delle risorse economiche a cui il segmento più produttivo del territorio nazionale era abituato a rinunciare a favore del Sud. Premiare l’operosità dei singoli e la fantasie delle imprese.
La biografia di Bossi contiene pagine irritanti e contraddizioni clamorose, ma non è la biografia di un politicante minore. È la storia dell’uomo che ha creato un movimento politico capace d’intercettare e anzi accendere per anni un sentimento collettivo. La Lega è stata il partito della Seconda Repubblica, qualunque cosa voglia dire questa espressione. Senza Bossi non ci sarebbe stato Berlusconi e quasi vent’anni di vicende italiane avrebbero avuto un volto molto diverso. Qualcuno dirà: sarebbero stati anni migliori. Può darsi, ma di sicuro diversi. Non avremmo avuto la scommessa perduta del bipolarismo e il sogno infranto di un federalismo velleitario.
Naturalmente la Lega di Bossi era tramontata da un pezzo. Da quando si era ridotta via via a un partito di gestione del potere e del sottogoverno. Da quando aveva accompagnato senza battere un colpo il declino di Berlusconi, illudendosi di essere il motore del governo. Fino alla rottura precipitosa dopo che la trapunta del potere si era lacerata. Un intreccio opaco che ha tradito proprio la base elettorale del Carroccio e di cui restano le macerie di oggi.
Gli ottimisti pensano che basti mettere Maroni al posto del leader storico, lasciando a quest’ultimo un incarico onorifico, per andare avanti come prima e magari riallacciare i rapporti con il Pdl in vista del 2013. Ma è più logico pensare che il partito, se vuole sopravvivere al suo fondatore, debba andare verso un rinnovamento pressoché totale del gruppo dirigente. I contorni dell’imbroglio al cui vertice c’era il tesoriere dimissionario sono troppo gravi per essere risolti con un piccolo «rimpasto» in via Bellerio. A meno di non abbracciare la teoria del «complotto» e incoraggiare un assurdo patriottismo di partito che avrebbe il solo effetto di radicalizzare quel che resta del movimento, spingendolo verso posizioni insensate.
Fa bene Maroni a chiedere che si faccia pulizia, purché non sia solo uno slogan volto a limitare i danni alle amministrative. Una Lega senza Bossi si può anche concepire, purché ci si renda conto che sarà un altro partito, con altre prospettive. Ovvio che un personaggio come Bossi, monarca assoluto per anni, non è sostituibile. Nel bene come nel male. Ma allora occorre voltare pagina con coraggio. Senza preoccuparsi delle future alleanze e dei residui privilegi. Quanto meno è un dovere verso l’opinione pubblica che ha creduto nel mito.
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Bossi, la resa che chiude un’era
del 06 aprile 201
2 di Michele Brambilla
Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.
Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.
Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi.
Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.
Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando – non si sa quanto consapevolmente – attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.
Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che – crede lui – ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.
Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».
Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.
Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi – e speriamo migliori – rispetto agli ultimi vent’anni.
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Bossi è caduto dal Carroccio
del 06 aprile 2012 di Mario Sechi
I partiti e le coalizioni che negli ultimi diciotto anni hanno governato il Paese si stanno disgregando. Siamo di fronte a un sistema che non regge più e la colpa è di una classe politica incapace di riformarsi. A breve le elezioni amministrative daranno un’altra scossa, quella che annuncia il terremoto del 2013.
Bossi è caduto dal Carroccio, la Lega è fulminata e la Seconda Repubblica è agonizzante. Le dimissioni del segretario segnano un altro passaggio di frontiera della storia politica. I partiti e le coalizioni che negli ultimi diciotto anni hanno governato il Paese si stanno disgregando. Siamo di fronte a un sistema istituzionale che non regge più e la colpa è di una classe politica incapace di riformarsi. I primi botti scoppiano nel Pdl e nel Pd, in due sequenze. La prima si svolge il 17 gennaio del 2009, quando Walter Veltroni, sconfitto alle elezioni politiche del 2008, si dimette dopo i ripetuti scontri con Massimo D’Alema. In quel momento, la prospettiva di una sinistra riformista tramonta. La seconda tappa arriva il 30 luglio del 2010, quando la battaglia tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini porta all’uscita dei finiani dal Pdl. Da allora la maggioranza di centrodestra entra nella fase del «tirare a campare». I due eventi segnano l’avvio dell’autoliquidazione dei partiti. Senza riforme istituzionali, senza una vita democratica al loro interno, con le casse piene di soldi, senza controllo sulle spese e con una gestione monarchica o da clan, i partiti si sono suicidati. Fino a fare – tutti, senza distinzioni – il passo indietro e lasciare a Mario Monti il volante della macchina. Nati per raccogliere il consenso, organizzare la rappresentanza ed esprimere il governo, i partiti dopo Tangentopoli sono stati incapaci di cogliere l’occasione per poter durare anche dopo la vita politica dei loro leader. Una massa enorme di denaro pubblico è entrata nelle loro casse, generando un surplus di risorse mai visto in precedenza. Dal 1994 al 2008 le elezioni hanno dato ai partiti una dote di 2,2 miliardi di euro di rimborsi. Soltanto 579 milioni sono stati spesi per le campagne elettorali, i restanti 1,6 miliardi di euro e «spiccioli» sono rimasti «a disposizione» dei tesorieri e dei leader. Avrebbero dovuto finanziare solo l’attività politica, hanno finito per essere il forziere personale di tesorieri spregiudicati (il caso di Lusi della Margherita) e leader che hanno interpretato il comando in senso familistico. La vicenda dei finanziamenti leghisti conferma questa degenerazione. Vent’anni dopo esser stato eletto alla Camera, Bossi lascia la leadership e il suo partito in un mare di guai. Si chiude un ciclo. Prima di far politica, negli anni ’60, Umberto incise un 45 giri con il nome d’arte di «Donato». La prima canzone si intitolava «Ebbro», la seconda «Sconforto». Sintesi perfetta della sua biografia politica. Siamo all’inizio di un racconto collettivo. A breve le elezioni amministrative daranno un’altra scossa, quella che annuncia il terremoto del 2013.
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La fine di un era
del 06 aprile 2012 di Claudio Sardo
Le dimissioni di Umberto Bossi, travolto dallo scandalo sei mesi dopo la caduta del governo Berlusconi, segnano la fine ingloriosa del ciclo decennale dominato dalla destra populista. Speriamo sia anche la fine della Seconda Repubblica, che Berlusconi e Bossi hanno piegato verso esiti drammatici per il sistema-Paese e per i suoi equilibri istituzionali. Questo passaggio però è più nelle mani di chi oggi ha raccolto la sfida della ricostruzione che non in quelle di chi è stato costretto al ritiro dall’evidente fallimento.
Bossi ha gettato la spugna tra mille paradossi. È stato travolto da sospetti di appropriazioni indebite, persino dei propri familiari, dopo aver fatto fortuna con quel motto «Roma ladrona» che segnava l’alterità della Lega delle origini, oltre che il suo potenziale razzismo. In realtà il Carroccio ha sempre convissuto con scandali, inchieste imbarazzanti, operazioni al limite della legalità (e talvolta oltre): dai 200 milioni del primo amministratore Patelli al crac della banca Credileuronord, ad episodi di corruzione locale, agli spericolati investimenti esteri con i denari del finanziamento pubblico. Tuttavia ha sempre fatto premio l’identità carismatica del movimento, la fedeltà al capo, la disciplina organizzativa. Qualcuno ha detto che la Lega è stata il solo partito leninista sopravvissuto alla caduta del Muro. Di certo, è stato il solo partito italiano ad essere entrato nella Seconda Repubblica con il nome e il simbolo che tuttora compongono la sua ragione sociale.
Ma quel mastice ora non ha più tenuto. Almeno per due ragioni. La prima è che lo scandalo stavolta travolge direttamente il leader maximo, il Senatur. E siccome il sospetto sembra essere quasi una certezza per lo stato maggiore della Lega – nel senso che tutti erano consapevoli di questa spericolata finanza di partito, gestita in modo anomalo e asfissiante dei familiari e/o dai famigli di Bossi – è evidente che l’inchiesta della magistratura e i suoi primi risultati si sono abbattuti come una mannaia sul vertice politico. Il declino psico-fisico del leader è diventato di colpo insopportabile, insostenibile. Forse lo è diventato per lo stesso Bossi, che magari si è sentito tradito da chi gli sta più vicino.
C’è però anche una ragione politica. Se il leader carismatico ha fondato il partito e ne ha garantito l’unità, nonostante le profonde divisioni interne, oggi il fallimento non può riguardare solo una persona. È la struttura del partito personale a mostrare ancora una volta la propria inadeguatezza a misurarsi con s
ocietà evolute, per di più alle prese con una crisi di competività e di tenuta sociale. In questo senso il crac di Bossi somiglia a quello di Berlusconi e lo completa. Il populismo sembrava una scorciatoia vincente, benché pagata ad alto prezzo. Ora invece è chiaro a tutti che è stato il propellente del nostro declino, la ragione che ha portato l’Italia a precipitare in tutte le classifiche europee e mondiali.
La Lega aveva anche tentato un salto mortale, passando in poche settimane da difensore arcigno delle politiche del governo Berlusconi – l’alleato più fidato, se si pensa che invece Casini e Fini sono stati espulsi dal centrodestra – a scatenato contestatore. Incuranti del fatto che dieci anni fa hanno sostenuto un governo che voleva cancellare l’articolo 18, ora i leghisti si erano messi a difenderlo, così come avevano dichiarato guerra ai provvedimenti di Monti dopo aver sostenuto i più vergognosi del governo precedente. Ma la piroetta non poteva riuscire con la struttura del partito carismatico, mentre il leader perde il carisma.
La drammatica crisi della Lega non annulla certo le ragioni e gli umori che l’hanno generata. Anzi, il deficit di credibilità della politica rischia oggi di allargare ulteriormente le distanze tra il malessere dei cittadini e la rappresentanza nelle istituzioni. Ma c’è una chance per chi vuole ricostruire il tessuto democratico che è stato strappato e, al tempo stesso, far ripartire il Paese. Bisogna giocarsela con intelligenza, passione e rigore etico. La soluzione trovata sulla riforma del mercato del lavoro, dopo un primo, grave errore del governo Monti, è un incoraggiamento per i riformatori e i democratici. Non è vero che la politica è finita e che il teatrino offre passerelle solo a leader solitari. Non è, come non ha mai fatto la destra populista e come stava rinunciando a fare il governo Monti.
La politica può tornare ad essere competizione tra alternative legittime e possibile. Le istituzioni possono tornare all’equilibrio della Costituzione, senza le torsioni presidenzialiste del partito personale e del maggioritario di coalizione. A condizione che si usi il tempo del governo tecnico e di questa «strana maggioranza» per cambiare davvero il Porcellum e tornare in Europa. Purtroppo non sono pochi i sostenitori dello status quo: bisogna affrontarli e batterli. Come occorre fare, subito, una legge affinché il necessario finanziamento pubblico ai partiti venga sottoposto a controlli severissimi e imparziali. Il rigore della politica è condizione del suo riscatto. Altrimenti al populismo rischia di seguire il primato degli oligarchi.