Intervista a Giancarlo Pizzuto

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""Quel pomeriggio incominciai a scrivere. Sì, nacque dalla rabbia questo libro, dalla rabbia di vedere decretata la mia morte sociale, dalla rabbia di vedermi escluso dalla vita attiva e produttiva""

D. Come si scrive un libro? O meglio dopo che hai avuto l’idea di scriverlo i capitoli sono venuti da soli oppure ti sei fatto degli appunti e man mano attingevi?

R.      Francamente non so come si scrive un libro, quali accorgimenti prendere per scriverlo, ne ho letti e continuo a leggerne tanti, leggere è la mia passione, so soltanto che quel giorno in cui decisi di raccontare parte della mia vita e mi sedetti al computer, scrissi il titolo, nato dall’amara considerazione che, malgrado tutta l’esperienza accumulata in tanti anni di lavoro, dovevo cedere il passo a giovani inesperti perché le imprese per la loro assunzione avevano e hanno agevolazioni fiscali e da quell’istante tutto avvenne in maniera repentina. Quel giorno, ritornato a casa dopo l’ennesimo infruttuoso giro alla ricerca di un lavoro, accesi il computer e fu come se questo libro si aprisse nella mia mente, dovevo solo scriverlo alla tastiera, il libro era già dentro di me, con i capitoli e le pagine che si susseguivano in maniera ordinata e precisa.

 

D.      Come hai fatto a ricordare così bene gli eventi che hanno portato a raccontare la tua vita?

R. Il licenziamento mi gettò nello sgomento, avevo lavorato per la stessa impresa per 24 anni ininterrotti e quindi erano ben lontani i ricordi e le sensazioni che questo portava, ma lo sgomento era dato in maggior parte dall’incertezza di un futuro per me e la mia famiglia, speravo e contavo sulla mia esperienza ma qualcosa nel mio profondo mi faceva presagire disastri. Quelli successivi furono giorni e poi mesi di sconcerto, oltre alle decine e decine di freddi rifiuti ricevuti tramite posta elettronica, fu un susseguirsi di porte chiuse che faceva montare una rabbia sorda, rabbia che aumentava ancor di più nel momento in cui, diligentemente, aspettavo il mio turno per il colloquio e rileggevo il mio curriculum vitae. Quelle righe, scritte in maniera stringata e generalizzanti sulle mansioni e i lavori svolti, racchiudevano, senza svelarli, anni di fatica e di duro apprendimento del mestiere di geometra, e racchiudevano anche episodi e accadimenti, rapporti e scontri, problemi e soluzioni e, nell’aspettare che venisse chiamato il mio nome per sostenere il colloquio ecco che mi venivano alla mente molti di questi episodi, agevolati dal fatto che ho un’ottima memoria e che nei cantieri che si andavano susseguendo nel tempo, ad ogni arrivo di nuovi operai, venivano raccontati loro gli scherzi che andavo combinando, a tutti, in maniera democratica e di quanto fossi “un fratello…ma bastaddu”. Veniva raccontata loro la mia intransigenza assoluta nel pretendere i lavori fatti a regola d’arte e il mio pretendere sempre il massimo impegno da ognuno di loro, ma anche che sul geometra Pizzuto si poteva contare sempre. Quelli che avevo in cantiere, tutti quegli splendidi ragazzi, non erano solo degli operai, dei subalterni, per me, erano amici, dopo tutti quegli anni di lavoro insieme si era creato un legame indissolubile, che ancora dura.

D.      Hai preso ad esempio qualche autore particolare?

R. Ho sempre amato la scrittura scorrevole e chiara nei libri, quella scrittura che ti cattura alla prima pagina aperta ed ho sempre ammirato Isaac Asimov, di cui ho letto tutto, dai racconti agli articoli di divulgazione, ma non so  se questo abbia fatto sì di poterlo lontanamente emulare. I miei gusti in fatto di lettura non hanno degli schemi fissi, sì, amo la fantascienza, ma leggo tutto quello che suscita la mia curiosità, da Hemingway (“il vecchio e il mare” fu il primo libro che lessi, avevo 10 anni) a Levi, Fallaci o King, fino ad arrivare a Piero e Alberto Angela, passando anche per il Libretto di Mao e per il Corano e la Sacre Scritture, insomma, tutto quello che solletica il mio interesse e la mia curiosità lo leggo, e dopo averlo stramaledetto per tutti gli anni scolastici in cui ci veniva imposta, ecco che oggi leggo con piacere anche “la Divina Commedia” di Dante Alighieri (ma solo il libro dedicato all’inferno però, non stare tanto a gongolare Dante!). Come scritto nel retro del libro, più che ad uno scrittore mi paragono ad un cantore, un novello cantastorie di antica memoria, che racconta, tramite gli occhi di chi legge, il meraviglioso e crudele mondo dell’edilizia e del lavoro nella mia Sicilia, ma un cantore che ha innato in sé il gusto del sorriso e dell’ironia.

 

D.      Il libro che hai scritto è servito almeno in parte a scaricare la tua rabbia oppure  se ricominciassi a scriverlo scriveresti le stesse cose o varieresti qualche capitolo?

R. Il libro nacque in un impeto di rabbia assoluta, dopo l’ennesima frustata morale data dall’ennesimo rifiuto ad un colloquio di lavoro, rifiuto non dettato da qualche mia mancanza di esperienza tecnica ma solo dalla mia età, la settima riga del curriculum dopo la foto. Con me non andavano oltre a leggere e alcuni me lo dissero in faccia, quel “geometra Pizzuto, è troppo avanti con l’età per noi!” dell’ultimo colloquio e lo sguardo di commiserazione con cui accompagnarono questa frase fu la goccia che fece traboccare il vaso. Quel pomeriggio incominciai a scrivere. Sì, nacque dalla rabbia questo libro, dalla rabbia di vedere decretata la mia morte sociale, dalla rabbia di vedermi escluso dalla vita attiva e produttiva. Ad ogni rifiuto era come se ognuno di questi potenziali datori di lavoro piantasse un chiodo  sul coperchio della bara della mia vita di tecnico, di geometra capace, ma non solo su quella,  ogni rifiuto era un accelerare la mia morte sociale, mi cancellavano e gettavano via, dopo aver preso il meglio di me. Paradossalmente scrivere il libro invece che farla diminuire ha alimentato questa rabbia, ripercorrere questi 28 anni con la memoria ha provocato il riaprirsi di ferite mal rimarginate, prima fra  tutte il non essermi goduto appieno la mia famiglia, mia moglie e i miei figli che all’improvviso mi sono ritrovato grandi, ho perso i loro anni più belli e adesso rimpiango nottate che non ho fatto e pannolini che non ho cambiato. No, scrivere il libro non ha scaricato la mia rabbia, quella ancora è dentro di me e se dovessi riscriverlo lo farei nella stessa identica maniera perché non è nato da un percorso di fantasia ma da una lunga serie di episodi di vita vissuta, quindi la cronologia mnemonica sarebbe la stessa e i capitoli si dipanerebbero nella stessa maniera. L’unica cosa che cambierei del libro sarebbe la lunghezza, questo sì. La prima stesura del libro aveva altre 150 pagine in più, altri 7 capitoli che per problemi di costi di stampa ma, ancor di più, per problemi legati al dover continuare a vivere in Sicilia, fui costretto a eliminare, ecco, alcuni di questi capitoli non li taglierei più.

 

D.      Il fatto di lavorare in un paese dove la mafia è una realtà quotidiana ha influenzato in qualche modo il tuo lavoro e se, anche non volendo, sei mai dovuto scendere a compromessi, anche andando contro la tua natura di uomo onesto. Se si, quanto questa cosa ti è pesata?

 R. La vita in Sicilia è una lunga sequenza di compromessi, sia essa lavorativa o vita vissuta, non è che un cercare di barcamenarsi attraverso delle presenze oscure che sono sul territorio, che condizionano tutte le scelte da fare, dal comprare una nuova macchina, dall’indossare una collana d’oro o all’aprirsi un’attività commerciale, sono degli spauracchi che aleggiano nella mente ormai e dettano i comportamenti e gettano nell’ansia. Avere avuto a che fare, fin da ragazzo, con qualcuno che si presentava con la sfrontatezza di voler apparire mafioso e che negli atteggiamenti e nelle parole proferite lo rimarcava, quasi a vanto, ti fa crescere velocemente, sei costretto a diventare maturo in poco tempo, una maturità forzata alla ricerca di frasi e parole che non scatenino la rabbia devastante di questi soldati del crimine. Sì, in questi 28 anni sono stato costretto a scendere a compromessi, sempre e comunque, purtroppo per poter lavorare in Sicilia, sei costretto a farlo, con l’assurdo che in territori sperduti fra le montagne, interni e nascosti, quando non venivano “loro” eravamo noi a “doverli” andare a cercare. Lasciare la sera più di 150 metri lineari di carpenteria per un muro da riempire di cemento l’indomani, fissare le autobetoniere per il mattino e l’indomani arrivare in cantiere e non trovare più nemmeno un pannello montato, in una zona dove, togliendo qualche rara pecora, c’eravamo in giro solo noi, ci servì da insegnamento. Essere costretto ad averci a che fare con questa realtà ha sempre violentato la mia anima, a maggior ragione quando gli incontri con questi personaggi avvenivano in cantiere. Avere davanti i miei ragazzi, che magari si erano svegliati alle 4 del mattino per essere puntuali in cantiere alle 6 e mezza, vederli curvi a gettare sudore per guadagnarsi la giornata e nel frattempo avere in cantiere questi “incaricati” che quasi con commiserazione li osservavano, mi faceva salire la rabbia, ancor più lacerante in quanto mi sapevo impotente, purtroppo nessuno stato potrà mai essere così radicato nel territorio di quanto lo sono “loro”, la blanda tutela che lo stato può dare non è niente di fronte al continuo espandersi di questo fenomeno e l’aver arrestato qualche boss non ha cambiato questo andamento, lo ha forse rallentato e scombussolato un po’, ma i subalterni hanno già preso il posto dei capi e il tutto continua, forse in maniera più sommessa e magari più nascosta, ma ho la netta sensazione che tutto ancora continua. Però non era solo questa la mafia con cui si era costretti a convivere, prima di arrivare ad aprire un cantiere c’erano tanti altri “passaggi” da fare e in quel momento si aveva a che fare con qualcosa che magari nominalmente non viene chiamata mafia, ma che di fatto lo è, le imposizioni e le richieste dei colletti bianchi, pronti a bocciarti un progetto o ad azzerartelo con le correzioni in rosso, a volte completamente sbagliate, se non venivano soddisfatti alcuni loro “desideri” e il fenomeno “mani pulite”, quel voler dare una pulizia al malaffare
che esiste nei palazzi  che gestiscono la cosa pubblica, in Sicilia (ma credo in tutta l’Italia) fece solo raddoppiare i prezzi, al punto da ricevere “richieste” anche per il semplice ritiro di un nulla osta che già aveva avuto i suoi “costi”. Pesarmi tutto questo? Sì, tanto! Mi è sempre pesato dover annullare la mia onestà, doverla barattare per poter vivere e lavorare, doverla tacitare quando sviluppavo i progetti e la contabilità del cantiere ed ero costretto a rubare sul cemento o sul misto, truccando i lavori eseguiti. Questi “costi” particolari dovevano essere trovati per non far diventare l’opera antieconomica per l’impresa e l’unica maniera era farli scaturire dai lavori che si stavano eseguendo. Ma nella disonestà della mia contabilità, cercavo di trovare delle somme dove non si sarebbe arrecato danno all’opera, nella mia forzata disonestà le opere che ho eseguito, quelle dove sono stato il rilevatore topografo, il progettista, l’esecutore in cantiere delle opere e il tecnico contabile del consuntivo di spesa, quei tanti, tantissimi chilometri di strade, sono ancora lì a testimoniare che tanto disonesto in fondo non sono stato e di tutte quelle strade, che ancora vengono percorse da tante persone, ne sono profondamente orgoglioso, anche se vergognandomi un po’.

D.      Pensi che vivendo in un altro contesto la tua situazione attuale sarebbe diversa?

R. Bella domanda! Fino a qualche anno fa, anzi, fino a un paio di decine di anni fa, qui in Sicilia si aveva la percezione netta che al nord la vita fosse migliore e la tentazione di partire per nuovi lidi a cercare di vivere in maniera più decente era tanta, tanti miei amici lo hanno fatto di andare a lavorare a Brescia, Varese o Milano, ma quelli erano anni in cui, bene o male, il mio lavoro marciava spedito e le soddisfazioni che avevo facevano da freno al desiderio di abbandonare questa realtà siciliana. Sì, occasionalmente e specialmente quando capitavano quegli “incontri” particolari in cantiere, mi veniva il desiderio di abbandonare tutto e partire, ma poi mi ritrovavo a rifletterci su e, dato che quello che la mafia segue sono i soldi, il potere e chi lo amministra, pensavo che, sicuramente anche lassù, nel ricco e benestante nord, dovesse esserci la “loro” presenza. Magari trasformata, magari non più con le vesti di pastore, ma indossando dei bei vestiti di Armani o Gucci, una mafia che, in quei luoghi così ricchi, del pizzo sistematico ai negozi ne faceva a meno, ma l’esperienza (e la rassegnazione all’impotenza dello stato) mi diceva che la loro scomoda presenza l’avrei trovata anche lì, forse in maniera meno appariscente di come è qui in Sicilia, ma la loro vicinanza a chi gestisce il potere e il loro infettare gli apparati produttivi, infiltrandosi nella sala dei bottoni, lo avrei trovato pure al nord. Però credo fermamente che se io fossi stato in altro contesto, la mia situazione sarebbe sicuramente cambiata, anzi, secondo me non sarebbe capitato quello che mi è successo. Credo che nessun datore di lavoro del nord avrebbe mai, neanche lontanamente, pensato di chiudere delle imprese che avrebbero potuto continuare a lavorare ancora per altri 20 e più anni, solo per soddisfare i capricci di una figlia, la cultura professionale del lavoro che avete al nord da noi ancora non si è radicata  purtroppo. Adesso che leggo, sui giornali, le infiltrazioni della ‘ndrangheta e il malaffare che attorno ai palazzi del potere ruota anche al nord, mi rammarico nel constatare che avevo ragione e spero che la popolazione del nord non consideri in maniera superficiale queste notizie che, sporadicamente appaiono, la mafia è un cancro silente e altamente infiltrante, da noi ormai si è propagato ovunque, le metastasi qui al sud sono radicate e di difficile sradicamento purtroppo, anche perché culturalmente e praticamente ci nasciamo e ci viviamo con questa anormalità spacciata per vita normale, ci viene inculcata questa rassegnazione da uno stato che ormai ci ha abbandonato perché impotente a contrastare il fenomeno mafia in maniera significativa. Da voi esiste altra cultura e mentalità e questo vi avvantaggerà nella lotta alla mafia, purché non la sottovalutiate o la consideriate solo espressione di un piccolo comune o città o porzione di territorio, state attenti che non è assolutamente così. Ma quella grande porzione di aria ancora pura che voi potete respirare, aria che non odora di pizzo o mafia o mazzette per qualunque cosa si intraprenda, fa sì di farmi desiderare di trovare lavoro e venire lassù da voi, a malincuore perché amo profondamente la mia terra, ma la lascerei per avere l’opportunità di poter riavere dignità, sia umana che professionale e di vivere meglio.

 

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