“Incontri con gli Autori” sull’Appennino modenese,

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Giovedì 23 luglio 2009, alle ore 21,00, presso la Palestra “New Events” di Piandelagotti GIUSEPPE AYALA presenta “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino ed inaugura il ciclo di che è giunto alla decima edizione


L’incontro è organizzato dalla “LAPAM-Confartigianato Imprese”, in collaborazione con il Comune d i Frassinoro e la “Pro-Loco di Piandelagotti”. Tutti gli “Incontri con gli Autori” del 2009, così come quelli delle nove edizioni precedenti,  sono curati dal giornalista ed operatore culturale Roberto Armenia, che opera anche come moderatore per il dibattito .

L’ingresso alla Piscina “New Events” di Piandelagotti è gratuito, aperto a tutti.

L’Autore è a disposizione per rispondere alle domande dei presenti e per dedicare copie del libro “Chi ha paura muore ogni giorno”. Sicuramente analizzerà e approfondirà anche  le ultime rivelazioni-esternazioni di Totò Riina relativamente alla stagione stragista e all’assassinio del giudice Paolo Borsellino.


 

“CHI HA PAURA OGNI MUORE OGNI GIORNO. I miei anni con Falcone e Borsellino” di Giuseppe AYALA (Arnoldo Mondatori Editore)

Il titolo è mutuato da una frase del giudice Paolo Borsellino: “E’ bello morire per ciò in cui si crede: chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”

E’ un bellissimo, documentato, emozionante ed istruttivo libro di denuncia (utilissimo per i giovani, perché sappiano e non dimentichino), che ricostruisce e racconta un quarto di secolo di stragi, di misteri, di sterminio sistematico dei servitori dello Stato più leali, onesti e coraggiosi, ricostruisce e racconta la sfida infinita dello Stato contro la mafia, gli anni di piombo della lotta contro il cancro-mafia, che, ha radici antiche ed  esiste ancora, con le sue metastasi che continuano a ramificarsi nell’apparato dello Stato.

Ma è anche, nel contempo, il diario intimo dell’Autore che è stato amico e “sodale” sia di Paolo Borsellino sia di Franco Falcone.

E’ un libro verità, che si legge e si apprezza anche per essere intriso di quell’humour, di quell’ironia tipica dei siciliani, specialmente di quelli più colti ed evoluti, quell’ironia che ha caratterizzato Borsellino e Falcone ed ancora oggi caratterizza Giuseppe Ayala che, commentando, sarcasticamente, l’ultimo millennio della Sicilia,  lungo e tormentoso, sottolinea: “è partito da Federico II di Svezia , Stupor mundi, per arrivare a Totò vasa vasa (Toto Reina conosciuto per la sua predilezione a baciare gli “amici-compari”) . Il primo ci conquistò militarmente, il secondo democraticamente. Ne abbiamo fatta di strada”

E’ un libro che denuncia anche il rapporto tra mafia e classe politico-burocratica, che si concretizza da un lato sul piano elettorale, da un altro su quello degli affari, del business. Ed è un diario umano scritto da un siciliano vero e dedicato a due siciliani altrettanto veri, genuini, onesti e coraggiosi come Borsellino e Falcone, il cui “credo” può essere sintetizzato nel messaggio anonimo apparso all’indomani dell’assassinio del Generale Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela: “ Qui è morta la speranza dei palermitani”. Ma , anche se il cancro-mafia ha origini antiche, anche se è radicato nella “cultura” di certi siciliani, anche se il nodo che lega mafia e politica non si è ancora sciolto, prendendo atto “con soddisfazione dei segnali forti e incoraggianti di ribellione che provengono dagli imprenditori siciliani, soprattutto contro la pratica del pizzo “ –sottolinea Giuseppe Ayala- “ spero di vivere a lungo, ma non so se ci sarò nel giorno in cui potremo dire di aver messo la mafia all’angolo. Però quel giorno, prima o poi, arriverà”

Parafrasando una risposta di Giuseppe Ayala ad una intervista per “Europa”, sulle origini della mafia, possiamo dire che come la prostituzione è la più antica professione del mondo, così  l’emergenza mafia è il fenomeno criminale che ha origini ancora precedenti, più antiche dell’Unità d’Italia, con l’emergenza che poi è seguita da un improvviso quieto vivere, in un riflusso che permette agli affari delle cosche di prosperare indisturbati, con lo “Stato che alla mafia s’intreccia anziché contrapporsi”. Perché –prosegue Giuseppe Ayala, con una metafora- “la partita contro la mafia non è stata vinta per la semplice ragione che non è stata giocata sul serio.. La mafia non è affatto più forte dello Stato. E’ molto più debole. Ma se il potenziale vincitore gioca la partita con la formazione sbagliata, fa un favore a quello che dovrebbe essere il perdente, o no ?”

Ad aiutare il lavoro dei magistrati, però, non possono essere solo le istituzioni. Le lenzuola bianche sui balconi di Palermo, gli imprenditori che si ribellano al pizzo, le associazioni antiracket, le prese di posizione del presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, sono tutti segnali che tengono alta l’attenzione. Segnali che non possono confondersi e sovrapporsi all’accusa generalizzata, al giustizialismo ad ogni costo. Falcone si trovò investito più volte da accuse volte a minarne l’autorevolezza e, soprattutto, a ostacolarne il lavoro. Accuse che provenivano non dai suoi nemici mafiosi, ma dall’interno di quelle istituzioni che dovevano essere sue amiche: dalla definizione di toghe rosse alle lettere del Corvo. Attacchi che non si fer
marono nemmeno quando giunse a Roma (nel 1991, su invito dell’allora Ministro Claudio Martelli, che credeva in Franco Falcone) per dirigere la sezione Affari penali del Ministro di Grazia e Giustizia, si dovette, ancora una volta, presentare al palazzo dei Marescialli (sede del CSM Consiglio Superiore della Magistratura), dove subì un vero e proprio interrogatorio per difendersi dalle accuse lanciate nei suoi confronti da Leoluca Orlando e due suoi seguaci”. Ayala riporta anche il commento , quanto mai attualissimo, di Falcone: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”.

Il colpo definitivo venne sull’autostrada tra Palermo e Mazara del Vallo, nei pressi dello svincolo per Capaci. Un colpo duro sferrato da Cosa nostra , caricato con mezza tonnellata di tritolo, che (il 23 maggio 1992) pose fine per sempre al lavoro e alla vita di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morlino e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Mortinaro. Poche settimane dopo (il 19 luglio 1992) sarebbe toccato a Paolo Borsellino

“Rientrato in magistratura dopo tanti anni di Parlamento (dal 1992 al 2001, prima deputato per il PRI, poi per Alleanza democratica, poi senatore eletto nelle liste DS. E’ stato anche Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia , nei governi Prodi uno, D’Alema uno e due)- racconta Ayala, che è un eccezionale comunicatore, un affascinante affabulatore- mi è capitato di dover redigere una sentenza di condanna per il furto aggravato di nove galline ovaiole e un gallo -lui che è stato il Pubblico Ministero del famoso maxiprocesso contro la mafia-  Nel generale imbarazzo sono scoppiato a ridere. Ma non ero solo. Ho sentito Giovanni e Paolo farlo con me. A crepapelle. Ho la presunzione di sapere esattamente quello che mi avrebbero detto:….<<Se dal maxi-processo sei finito tra i ladri di polli, il problema non è tuo, ma delle istituzioni, ancora oggi padroni infedeli dei loro migliori servitori. Noi ne sappiamo qualcosa. E comunque, futtitinni e pensa ‘salute”>>.

Oggi, dopo più di quindici anni da quel tremendo 1992, che ha visto la mafia (che, negli anni Ottanta, ha fatto più di un migliaio di vittime, tra boss mafiosi e servitori dello Stato come Ninni Cassarà, Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre e Piersanti Mattarella) e tanti altri tra poliziotti, magistrati, politici e giornalisti assassinare Giovanni Falcone con la moglie Francesca e la loro scorta e Paolo Borsellino con la sua scorta, Giuseppe Ayala che “ha ormai pagato il torto di essere rimasto vivo”(dei quattro giudici che iniziarono ad occuparsi del maxi-processo, due , Falcone e Borsellini, sono stati ammazzati, uno, Mimmo Signorino, è morto suicida perché stressato dall’incubo di intercettazioni telefoniche –poi risultate inesistenti, ma intanto era stato “mascariato”- il quarto, Ayala oggi è stato mandato ad occuparsi di galline ovaiole” a L’Aquila), ha deciso di raccontare la sua verità su Falcone e Borsellino, ricordandone il fondamentale contributo alla lotta alla mafia e le attualissime riflessioni sulla Sicilia, Cosa nostra (Leonardo Sciascia, altro siciliano vero, autentico, ha scritto : “temo la mafia soprattutto quando non si spara”), sulla giustizia, sulla politica. Sottolineando i legami tra capimafia, massoneria, uomini politici e imprenditori, quella mafia che ancora oggi mantiene profittevoli radici nel tessuto dell’economia e della finanza siciliana e nazionale (affari, appalti, estorsioni). Ricorda e documenta quel lungo e straordinario periodo nel pool antimafia, coordinato e diretto da quel galantuomo di Antonino Caponnetto, a Palermo. Quel pool antimafia che, per la prima volta nella storia, con il maxi-processo di Palermo ha messo alle corde la mafia: 200 imputati, 349 udienze, 1820 ore di dibattimento, 1314 interrogatori, 660.000 fogli di atti processuali, 35 giorni di camera di consiglio e finalmente la sentenza, con 19 ergastoli, “gli anni di carcere inflitti furono 2665. Gli oltre duecento imputati presenti ascoltarono increduli, quasi impietriti”. Lo Stato ha vinto, aderendo a tutte le richieste di condanna di Ayala.

La mafia ha perso. Ma stranamente, assurdamente “lo Stato aveva deciso di fermare se stesso proprio nel momento in cui stava registrando risultati esaltanti. E perché? Perché la mafia ce l’aveva dentro. Si faccia avanti –scrive Ayala- chi è capace di dare una diversa risposta plausibile… Giovanni Falcone .. fu oggetto di torbidi giochi di potere , di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia.

Il libro racconta anche le rivoluzioni tecniche, le innovazioni investigative di Falcone (con la sua “teoria di Capocabana”, con le investigazioni allargate anche all’estero, dal momento che la mafia non andava affrontata come se si trattasse di un fenomeno locale, ma come un’organizzazione internazionale con tentacoli che arrivavano dappertutto). Racconta ed esalta i valoridell’amicizia soprattutto tra Falcone e Borsellino (“l’intesa tra i due –scrive Ayala- era formidabile quanto l’affetto e la stima che li legava. Si conoscevano da bambini, essendo nati nello storico quartiere della Kaisa, a Palermo…si completavano a vicenda”) e con Giuseppe Ayala, esalta i sentimenti di amicizia, di affetto e, soprattutto, l’amore che univa Falcone alla bella, intelligente e colta moglie Francesca, anche lei magistrato, l’amore tra Borsellino e la moglie Agnese, amore nato da ragazzi e che per Agnese non è morto il pomeriggio del 19 luglio 1992, l’amore tra Ayala e la seconda e attuale moglie Natalia, ma anche la stima, la considerazione e l’affetto che hanno caratterizzano e caratterizzano i rapporti con la prima moglie Pinì, con cui ha avuto tre figli.

E’ un diario in cui si evidenziano il coraggio, la presa di coscienza dei due servitori dello Stato Falcone e Borsellino che, consapevoli dei rischi sempre in agguato, riuscivano a prendere le distanze anche dalla morte. Spesso ricorrendo all’ironia, all’umorismo, che diventa un meccanismo istintivo di difesa per non pensare alla morte. Per Falcone “bisogna reggere non solo la grande paura, quella della morte, ma soprattutto grandi rinunce. Come quel
la dei figli”. Falcone che amava molto i bambini, alla domanda sul perché non voleva figli, ha risposto: “Non si fabbricano orfani”

Paolo Borsellino ad Ayala che, nel corso dell’ultimo loro incontro, avvenuto pochi giorni prima di essere assassinato, lo invitava a lavorare di meno, risponde: “Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta così poco tempo” . Ha detto Agnese Borsellino: “Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro”.

Pare che un giorno –conclude il libro di Giuseppe Ayala- ci ritroveremo ancora. Senza fretta, però. Loro ne hanno avuta troppa. Senza volerlo” E così sia.

Il libro è anche un inno alla sicilianità ; a quella delle ricche e nobili tradizioni artistico-culturali, dei poeti arabo-siciliani-normanni, a quella di Pirandello, Brancati, Sciascia, Camilleri, di Ayala, Borsellino e Falcone, ma anche a quella che ha favorito la nascita e il diffondersi di fenomeni criminali come la mafia, che si basa sul siciliano che “non possiede la cultura del diritto, perché conosce quella del favore”, per cui “cumannari è megghiu di futtiri” Non a caso –scrive Ayala-, nessuno è più veloce di un siciliano nel salire sul carro del vincitore. Ma siamo certi – lo stesso Ayala lo è- che “arriverà il giorno in cui la mafia sarà messa all’angolo, sarà definitivamente estirpata, sconfitta”. Anche grazie a servitori dello Stato come Borsellino e Falcone che sono stati assassinati, come Giuseppe Ayala, che ha scritto e dedicato loro questo bellissimo libro.

Ayala , commentando l’assassinio di Borsellino, avvenuto il 19 luglio 1992, scrive: “L’Italia piange di dolore e di rabbia. La mafia quella sera si ubriaca di gioia, festeggiando con demoniache risate”.

Oggi, Ayala,  consapevole che “la mafia è cambiata, si è imborghesita dove il capo di una famiglia mafiosa può essere anche un primario ospedaliero, pur sapendo che non cambia la capacità della mafia di insinuarsi nel potere politico. Di ogni colore, purtroppo” è fiducioso.

Sa, crede che la mafia può essere sconfitta dallo Stato della legalità, della giustizia, della vera democrazia.                                                                                         

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