Riassumo gli eventi ed i retroscena cui allude Montanelli in questo articolo: il 29 gennaio
Quella mattina Alessandrini si sta recando al palazzo di Giustizia dopo aver accompagnato il figlio Marco a scuola. All’incrocio tra viale Umbria e via Muratori lo attende un commando di Prima Linea, capeggiato da Marco Donat Cattin e Sergio Segio. Una raffica di proiettili colpisce l’auto del magistrato e per lui non c’è più niente da fare.
Torino, 18 febbraio 1980: i Carabinieri arrestano Patrizio Peci, elemento di spicco delle Brigate Rosse. Poco più di un mese dopo Peci inizia a parlare e rivela tutto: nomi, fatti, date, e parla anche di Prima Linea. Gli inquirenti hanno in mano la carta giusta per arrivare a Sandalo, a Marco Donat Cattin ed agli altri terroristi di Prima Linea.
Ma qui nasce uno degli scandali politici più tormentati del recente passato. Uno scandalo che approderà in Parlamento e metterà sotto accusa l’allora Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, accusato di aver informato il collega di partito Carlo Donat Cattin dell’imminente arresto di suo figlio Marco, consigliandogli di farlo fuggire all’estero.
Questo, molto in sintesi, l’antefatto.
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A. B.
Lasciamo al collega Damato il compito d’illustrare i retroscena e di commentare l’esito del voto che proscioglie Cossiga e condanna la Dc per i suoi «franchi tiratori». Prevedevamo che ce ne fossero, e crediamo anche di sapere chi sono. I soliti. Quelli che ci riempirono di contumelie quando invitammo gli elettori a votare per quel partito turandosi il naso. E dire che ci limitavamo al naso.
Ma, sebbene assolto, siamo preoccupati per Cossiga. Ci piacerebbe credere che si è rifiutato di prendere la parola perché orgogliosamente considerava l’autodifesa incompatibile con la sua dignità. Ma purtroppo ci par di capire che non è cosi. Noi crediamo all’orgoglio di Cossiga (che sardo sarebbe, se non ne avesse?), come crediamo alla sua sostanziale innocenza. Ma il suo silenzio non è dovuto a questo. Cossiga è in crisi: non di governo, ma di nervi. E a procurargliela non è stata l’incriminazione davanti alle Camere, a almeno non solo questa. Io lo vidi durante la campagna elettorale a Milano, e dopo il colloquio mi chiesi perché me lo avesse sollecitato. Di solito Cossiga è un conversatore brillante, anche se il suo cupo e chiuso accento isolano con tutte quelle consonanti maggiorate e le desinenze in U rende il suo eloquio più da condoglianze che da convivio. Ma quel giorno lo trovai completamente spento, e perfino un po’ assente.
La verità è che in Italia fare il capo del governo per oltre un anno è come correre i cento metri per due chilometri di seguito. La sua giornata è quella di un derviscio impazzito che gira vorticosamente su se stesso senz’altro risultato – fra consigli di ministri, incontri coi sindacati, riunioni di partito – che quello di girare. Renderà, il potere, in Italia; ma costa anche in proporzione. La vita dei suoi sacerdoti (si fa per dire) è infernale: più ne salgono, trafelati, i gradini e più devono sacrificargli. L’uomo di potere, in Italia, non pensa che al potere, non ha tempo per altro, nemmeno per fare il padre, e infatti i suoi figli finiscono nel terrorismo o dintorni; e se come marito non è cornuto è perché la moglie è brutta.
I notabili della vecchia generazione erano abituati a questa ginnastica e la reggevano benissimo. Lo stesso Moro, che dava l’impressione di essere sempre sull’orlo del collasso, il collasso poi Io procurava agli altri, che dai chilometrici «confronti» con lui uscivano distrutti e con la mente in stato confusionale. Per non parlare di Fanfani che ancora oggi, nonostante i settantadue suonati, sarebbe capace di mettere alla frusta qualsiasi squadra, se gliene affidassero una.
L’ultimo esemplare di questa categoria di mostri è Andreotti che, dipanando i fili di dieci tele alla volta, trova ancora il tempo di scrivere libri, di pubblicare articoli e di mandare lettere autografe al sottoscritto per chiarire quanto disse, figuriamoci, su San Bruno.
Ma i loro successori non sono da tanto, Forlani lo sa, e non ci si prova nemmeno. La sua intelligenza, che è notevole e sottile, si esercita soprattutto nella ricerca degli alibi delle sue rinunzie. Cossiga forse è stato tratto in inganno dall’esempio di suo zio Antonio Segni. Se ce l’aveva fatta quell’avanzo d’uomo fino a diventare presidente della Repubblica, deve aver pensato, posso farcela anch’io. Nemmeno lui, nonostante la parentela, aveva capito che fil di ferro si nascondeva dentro quell’omino tutto bianco e che denti erano quelli con cui reggeva l’anima.
Di simili fusti, la leva dei cinquantenni non ne ha. Cossiga sembrava uno dei più qualificati ad assumerne l’eredità, e dapprincipio aveva dato l’impressione di averne i muscoli. Ricordiamo i suoi esordi a palazzo Chigi: furono disinvolti e sicuri. Sembrava che, addentata la mela de! governo, l’uomo l’avesse trovata di suo gradimento e la tenesse saldamente in pugno. In un anno vi si è spompato, e credo che solo al senso di responsabilità attinga ora la forza di restare in carica.
In Italia, veri uomini di potere non ce ne sono più, né possono spuntarne di nuovi. Si consumano troppo nella lotta per conquistarlo. E quando, dopo indescrivibili resse e risse d’anticamera, riescono ad assicurarsi la stanza dei bottoni, non hanno più neanche la forza di pigiarli. Se li pigiano, si accorgono che non suonano o perché son rotti o perché nessuno li sente. E come premio gli rinfacciano l’«arroganza del potere».
Suggeriamo a Cossiga una buona vacanza sull’Orthobene o sui Supramonte e, come passatempo, un po’ d’abigeato. I politici non hanno bisogno d’impararne l’arte. Specie se sardi, l’hanno nel sangue.