
Padre Lombardi: Santa Sede valuta azioni legali contro La7 e “”Gli Intoccabili””
La Segreteria di Stato della Santa Sede e il Governatorato della Città del Vaticano intendono “”perseguire tutte le vie opportune, se necessario legali, per garantire l’onorabilità di persone moralmente integre e di riconosciuta professionalità, che servono lealmente la Chiesa, il Papa e il bene comune””. Lo ha affermato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, in merito ad “”alcune accuse, anche molto gravi, fatte nel corso della trasmissione ‘Gli Intoccabili – trasmessa da La 7 ieri sera – in particolare quelle nei confronti dei membri del Comitato Finanza e Gestione del Governatorato e della Segreteria di Stato di Sua Santità””.
Rispondendo alle domande dei giornalisti che gli chiedevano se sono autentici i documenti mostrati in trasmissione dal conduttore Ganluigi Nuzzi, e in particolare una lettera indirizzata al Papa, attribuita al nunzio negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò, già segretario del Governatorato Vaticano, e un appunto indirizzato al segretario di Stato Tarcisio Bertone e attribuito al presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, padre Lombardi ha risposto: “”non mi pronuncio sui singoli documenti prodotti””. Ma ha denunciato “”la discutibilità del metodo e degli espedienti giornalistici con cui è stata realizzata””. Ed ha espresso “”amarezza per la diffusione di documenti riservati””.
Della trasmissione televisiva “”Gli intoccabili”” andata in onda ieri sera e dell'””abituale contorno di articoli e commenti””, padre Lombardi ha criticato anche l’omologazione a quello che ha definito un “”metodo generale, sia come stile di informazione faziosa nei confronti del Vaticano e della Chiesa Cattolica””.
Lombardi: nessun dubbio su fiducia del Papa in mons. Viganò
“”Va riaffermato decisamente che l’affidamento del compito di nunzio negli Stati Uniti a mons. Viganò””, “”uno dei compiti più importanti di tutta la diplomazia vaticana””, “”è prova di indubitabile stima e fiducia da parte del Papa””. Così padre Lombardi sulla trasmissione “”Gli intoccabili”” di La7, in particolare sulla tesi secondo cui il trasferimento a Washington dell’ex segretario del Governatorato sarebbe dovuto alla sua azione di pulizia sugli appalti in Vaticano.
L’azione svolta da mons. Carlo Maria Viganò come segretario generale del Governatorato “”ha certamente avuto aspetti molto positivi, contribuendo ad una gestione caratterizzata dalla ricerca del rigore amministrativo, del risparmio e del raddrizzamento di una situazione economica complessiva difficile””, sottolinea padre Lombardi in una nota. “”Questi risultati, ottenuti durante la presidenza del card. Lajolo, sono chiari e non sono negati da nessuno””, prosegue. Una valutazione “”più adeguata”” richiederebbe tuttavia “”di tener conto dell’andamento dei mercati e dei criteri degli investimenti nel corso degli ultimi anni, ricordare anche altre circostanze importanti, come i risultati notevolissimi dell’attività dei Musei Vaticani, con flusso accresciuto di pubblico e orari di apertura più ampi, ricordare le finalità non puramente economiche ma di supporto della missione della Chiesa universale da parte dello Stato della Città del Vaticano che sono motivo di spese anche notevoli, e così via””
In ogni caso, osserva ancora il portavoce vaticano, “”i criteri positivi e chiari di corretta e sana amministrazione e di trasparenza a cui si è ispirato mons. Viganò continuano certamente ad essere quelli che guidano anche gli attuali responsabili del Governatorato, nella loro provata competenza e rettitudine””. E ciò “”è coerente con la linea di sempre maggiore trasparenza e affidabilità e di attento controllo sulle attività economiche su cui la Santa Sede è chiaramente impegnata, nonostante le difficoltà, come dimostrano anche le adesioni alle Convenzioni internazionali di cui si dà notizia – per casuale coincidenza – proprio quest’oggi””. Insomma, “”l’avvicendamento alla guida del Governatorato – aggiunge padre Lombardi – non intende certamente essere un passo indietro rispetto alla trasparenza e al rigore, ma un ulteriore passo avanti””.
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Fede e appalti, la solitudine del Pontefice
del 26 gennaio 2012 di Mario Sechi
A Benedetto XVI è stata riservata una prova dolorosa: riformare la Chiesa dal suo interno. Ha
tuonato contro lo scandalo della pedofilia e ha affrontato aspetti della gestione vaticana fino al suo arrivo trascurati, primo fra tutti quello della finanza e delle opere pie sparse nel mondo.
Ogni Papa porta la sua croce e viene chiamato a compiere una missione che segna il suo Pontificato. A Giovanni Paolo II toccò quella di dare speranza ai movimenti di liberazione dalle dittature e aprire una nuova stagione di evangelizzazione nel mondo. Wojtyla rispose alla chiamata con un’energia senza pari. Il muro del comunismo cadde anche grazie alla sua opera di demolizione e ricostruzione. A Benedetto XVI è stata riservata una prova dolorosa: riformare la Chiesa dal suo interno. Ha tuonato contro lo scandalo della pedofilia e ha affrontato aspetti della gestione vaticana fino al suo arrivo trascurati, primo fra tutti quello della finanza e delle opere pie sparse nel mondo. È compito del Pontefice mantenere la Chiesa viva e unita e per questo Lord Acton scriveva che «la supremazia papale è il sostegno, o meglio è la pietra angolare del cattolicesimo; senza di essa, vi sarebbero tante chiese quanti sono gli stati o le nazioni». Parole a cui la cronaca continua a dare una luce di eternità. Ancor di più di fronte alla vicenda degli appalti in Vaticano e del trasferimento di un alto prelato come monsignor Carlo Maria Viganò, oggi Nunzio Apostolico a Washington, ma fino a poco tempo fa segretario generale del governatorato della Santa Sede. Viganò scrisse il 27 marzo del 2011 una lettera al Papa sulla «corruzione» nella gestione degli appalti. Quella parola è un macigno se resta in una lettera riservata, ma diventa una montagna se finisce in tv in un’inchiesta ben documentata come quella condotta da Gianluigi Nuzzi ne gli «Intoccabili» su La7. Un credente di fronte a tali fatti, vacilla. E poi sempre più sconcertato si chiede: perché le lettere al Pontefice escono dalla Santa Sede? Chi vuole colpire il Papa dall’interno della Chiesa? E qual è il disegno finale di una trama che fa del Pontefice un uomo solo al terzo piano del Palazzo Apostolico? Disse il cardinale Ratzinger: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!». Era la nona stazione della Via Crucis del 2005. Ratzinger era predestinato nel suo compito, come altri prima di lui. E sa cosa deve fare. È scritto nel Vangelo: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare». Lo diceva Gesù.
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Monti teme che il Pdl imploda: “non so se riesce a tenere fino alla fine”
del 26gennaio 2012 di Francesco Bei
Berlusconi attende la sentenza Mills per decidere se staccare la spina al governo…l’ex premier pressato dai suoi deputati del nord che temono sia un calo di consensi che l’abbandono dell’alleanza con la lega e quindi la perdita della poltrona…ma le elezioni per il pdl sarebbero il suicidio
La faccia preoccupata di Mario Monti, mentre lascia di corsa Montecitorio prima che l’aula abbia votato la mozione unitaria sull’Europa, contrasta con una giornata che, per il suo governo, dovrebbe assicurargli una navigazione tranquilla.
Il voto è stato bulgaro – 468 favorevoli – e, in fondo, si è trattato della prima apparizione formale della nuova maggioranza “tripartita”.
E questo nonostante i democratici e i berlusconiani si sforzino di ripetere che non si tratta dell’avvio di una coalizione “politica”.
Eppure il premier inizia a temere che sia solo la quiete prima della tempesta. “Ho paura – confida ai suoi – che il Pdl non tenga”.
L’attenzione dei sostenitori del Professore è infatti tutta concentrata su quello che è diventato il vero anello debole della maggioranza “strana”: il partito del Cavaliere.
E non è stato un bel segnale per il governo vedere quei 64 astenuti del Pdl – nonostante l’ordine ufficiale di votare no – che non se la sono sentita di andare contro la mozione della Lega.
Gente di Berlusconi, come Laura Ravetto o Massimo Corsaro, eletti al Nord, che temono la fine rovinosa dell
’alleanza con Bossi.
“Qua si va a votare – sbotta l’ex ministro Andrea Ronchi – il 90 per cento di noi non ne può più di questo governo”.
A preoccuparsi stavolta sono anche gli uomini del Pd e del Terzo polo. Quelli più impegnati nella difesa del governo tecnico. Come Enrico Letta, che ieri in aula è salito ai banchi del Pdl per una serrata conversazione a quattr’occhi con un’altra colomba, Franco Frattini.
Per questo anche i centristi hanno iniziato a costruire i primi “firewall”, per evitare che il partito dei falchi berlusconiani travolga tutto e trascini l’Italia al voto. “L’atteggiamento del Pdl – spiega il segretario Udc Lorenzo Cesa – ci inizia a preoccupare. Dobbiamo stare attenti e aiutarli a reggere, è interesse di tutti che il Pdl ora non esploda”.
Per questo, rivela Cesa, l’Udc sta dando una mano al segretario Alfano rendendogli meno difficile “raggiungere un accordo con noi alle amministrative. Un’impresa non impossibile visto che in molti posti già governavamo insieme”.
È un modo per allentare la pressione, per abbassare la temperatura interna alla maggioranza che sostiene il governo. E far intravedere al Pdl una via d’uscita alternativa, oltre l’alleanza sempre più difficile con Bossi.
Tanta premura non deve apparire eccessiva.
Nel Pdl infatti ogni giorno che passa cresce il malcontento nei confronti del governo Monti. E in tanti iniziano a pensare che proprio il decreto sulle liberalizzazioni, avversato dalle categorie che da sempre hanno guardato al centrodestra, possa essere il terreno ideale per far saltare il banco e andare in campagna elettorale.
Aldo Brancher, da sempre il pontiere fra Berlusconi e Bossi, lunedì sera era presente alla cena tra i due leader a via Rovani.
E pronostica una svolta a breve: “Berlusconi vede che il decreto Monti colpisce da una parte sola. E i nostri, sul territorio, si devono difendere dall’accusa di votare queste misure impossibili insieme al Pd. Ma pian piano la gente sta iniziando a capire che non era colpa di Berlusconi quello che è accaduto. Bisogna aspettare una quindicina di giorni e poi vediamo”.
Quella “quindicina di giorni”, a cui allude il braccio destro del Cavaliere, porta avanti le lancette della politica a una data chiave per il Pdl: la sentenza del processo Mills. Un processo “politico”, secondo l’ex premier, che ieri ha voluto inviare un segnale preciso andando in Tribunale invece che a Montecitorio.
Come a dire: è a Milano che per me si gioca la vera partita. “Perché è chiaro – osserva Maurizio Lupi – che una condanna che arriva a un giorno dalla prescrizione significa che anche il collegio dei giudici, oltre alla procura, si è accanito. E per noi sarebbe una sentenza politica con conseguenze politiche. Perché i giudici non vivono sulla luna”. Insomma, il Cavaliere ha davanti due strade: la prima porta alla rottura con Monti e al voto anticipato.
Strada piena di rischi, anche per i sondaggi negativi che danno in costante caduta il suo partito. Ma avrebbe la certezza di mantenere in piedi l’asse del Nord con Bossi, sia alle politiche che alle amministrative.
La seconda strada conduce invece alla rottura con il Carroccio e al sostegno a Monti fino alla fine della legislatura.
Ma Berlusconi vuole garanzie: “Non posso sostenere un esecutivo con chi vuole mandarmi in galera. Serve un disarmo e il primo passo è la sentenza Mills”.
Il secondo passo, spiegano dal Pdl, è quello che si aspetta il partito Mediaset. L’azienda non vuole scherzi sul beauty contest che dovrebbe assegnare le frequenze digitali. Il ministro Passera per ora l’ha bloccato, ma l’asta non è stata ancora indetta. Ecco, anche la partita delle frequenze, oltre alla sentenza Mills, è in questi giorni sul tavolo del Cavaliere.
Che si è preso “una quindicina di giorni” di attesa. Per capire se staccare la spina. Oppure andare avanti, come ieri, con la maggioranza “strana”.
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Tir, Tasse e Burocrazia, fra Austria a Burundi
del 26 gennaio 2012 di Paolo Visnoviz
Un osservatore esterno che guardasse al nostro Paese potrebbe pensare che l’Italia si sia capovolta. Esponenti tradizionalmente più vicini alle posizioni liberali protestano e unanimemente condannano l’operato del governo Monti, che afferma di operare per le liberalizzazioni. Susanna Camusso, leader Cgil, dopo le convinte partecipazioni alle manifestazioni – di profondissima valenza sociale – quali “Se non ora quando?”, viene in soccorso al governo opponendosi alla rivolta dei Forconi, allo sciopero dei Taxi, dei pescatori e di quello dei Tir parlandone come di proteste in “difesa delle corporazioni”.
Sarebbe interessante conoscere quale rendita di posizione difendano gli autotrasportatori. Un viaggio di un Tir da Messina a Milano di ortofrutta viene pagato 1.800/2.000 € ai quali devono essere subito sottratti i costi d’intermediazione/carico pari a circa 300 €, 170 di traghetto, altri mille se ne vanno per il gasolio, 300 di pedaggio autostradale e, per ultimo, l’ingresso/scarico al mercato di destinazione quantificabile tra i 20 e gli 80 €. Ovvero, se va tutto bene e il camionista è riuscito a consegnare la merce entro le usualmente 18 ore pattuite da contratto e non è così incorso in alcuna penale, multa, esplosione di pneumatico, rottura di sorta e non ha mangiato nemmeno un panino può sperare di far ritorno nella sua Sicilia – dopo due giorni – con la bellezza di circa 150 € in saccoccia. Lorde.
Certo, può sperare di trovare qualcosa da trasportare da Milano a Messina, avrà un rimborso sul carburante pari a 190 litri per ogni 1000 consumati – dopo tre mesi e solo passando attraverso un sindacato o associazione di categoria, quindi pagando –; inoltre, dalle recenti assicurazioni del ministro Passera, potrà contare su una riduzione dei pedaggi autostradali ancora vaga, che alcuni indicano pari a circa il 13%; ma con questi valori in gioco, significa lavorare in perdita secca. La rotta Sud-Nord è pure privilegiata, perché quella Est-Ovest deve fare i conti con la concorrenza dei camionisti sloveni, croati, romeni, ecc., i quali hanno minor costi del personale, di gestione del mezzo (meno controlli e burocrazia) e di carburante, che pagano circa 80 cent/litro.
Questa protesta sarebbe una difesa dei privilegi di corporazione? Piuttosto assomiglia ad una rivolta per esasperazione. Chi guida il Paese non si rende minimamente conto dei salti mortali che tutte le categorie di lavoratori non protetti devono compiere per tentare di sopravvivere. E non se ne rendono conto i sindacati, la Confindustria, la politica e in genere tutti quei cittadini che, indignati, protestano per i supermercati vuoti, la penuria di carburante e l’illegalità della rivolta.
Trasportounito-Fiap, unica sigla ad aver appoggiato la protesta dei Tir, ha annunciato la fine dello sciopero per venerdì, e per almeno trenta giorni – come da termini di legge – non potrà indirne altri. La partecipazione, massiccia e spontanea, è andata però ben oltre ai soli iscritti a questa sigla, quindi non è affatto detto che la rivolta si esaurirà venerdì. Il ministro Passera dovrà trovare un’altra strada per sciogliere il nodo, aumentando le agevolazioni fin qui promesse, e non basterà il pugno di ferro voluto dal ministro Cancellieri che, per la prima volta, ha indirizzato le forze dell’ordine verso atteggiamenti poco comprensivi e affatto collaborativi.
Il Paese sembra capovolto, si diceva, ma a ben vedere non lo è affatto. Semplicemente molte categorie non ci stanno a farsi prendere per il naso. Non basta chiamare “liberalizzazioni” delle riformicchie di dubbia o alcuna utilità perché lo siano davvero. Nessuno difende delle rendite di posizione e delle vere liberalizzazioni sarebbero ben accette, ma la mancata competitività del sistema-Italia non dipende da queste corporazioni (taxi, farmacie, autotrasportatori, pescatori, allevatori, coltivatori), come il costo del carburante non dipende né da Ahmadinejad né dal fantasma di Gheddafi, ma sono causate dalle accise. Sono le tasse – dirette e indirette – e la burocrazia che mettono le imprese fuori gioco.
Fate un piccolo esperimento. Andate in una qualsiasi camera di commercio per aprire una attività. Non potrete farlo. Vi verrà chiesto un numero di conto corrente, ma questo non potrete ancora averlo perché la società non è stata ancora costituita e in banca non vi possono dare un numero di conto senza partita Iva. Poi vi servirà la Pec (Equitalia deve poter risparmiare sulle notifiche). Quando avrete perso una giornata a correre tra un ufficio e un altro, senza aver ottenuto nulla, vi toccherà arrendervi e andare a Canossa da un commercialista (questa sì che è una corporazione, ineludibile, dal costo aggiuntivo obbligatorio), che telematicamente farà tutto per voi. Attenzione però, perché il calvario sarà appena all’inizio e avrete a che fare con una infinità di regole, balzelli, norme e adempimenti. Alla fine di tutto ciò (che in realtà mai finisce) sarete sollevati, contenti di poter finalmente esercitare la vostra attività. Non spendete nulla però, perché starete in pace solo uno o due anni, poi vi arriveranno le tasse e l’anticipo sulle stesse delle quali il commercialista vi avviserà solo il giorno prima della scadenza: «Buongiorno, sa che domani ha l’acconto Irpef e – gioisca! – grazie a Monti questo sarà solo dell’ 82% invece che il 99%?». Poi vi dirà una cifra da svenimento, che voi non avrete nemmeno se venderete tutta l’attività, moglie compresa, e maledirete di essere nati in Italia.
Adesso vi racconto come funziona in un Paese civile, l’Austria, ma di certo non l’unico. Un mio amico viennese, ma che aveva studiato architettura a Venezia, dopo aver fatto il praticantato presso un importante studio triestino si era messo finalmente in proprio. Iniziò ad esercitare sia nel suo Paese d’origine, sia in Italia, aprendo regolare partita Iva, iscrizione all’albo, ecc. Incontratolo dopo un paio d’anni mi chiese, guardandomi con compatimento, se per caso in Italia fossimo tutti pazzi. Tra tasse, commercialista, le più disparate norme da ottemperare (e pagare), spese varie andò in perdita. Per di più voleva fare l’architetto non il burocrate. In Italia non era possibile lavorare, chiuse l’attività e continuò ad esercitare solo da Vienna. Le tasse in Austria, mi spiegò, si pagano così: si prendono tutte le fatture emesse, tutte quelle ricevute, le spese varie – finanche i conti del ristorante o i biglietti dei treno –, si fa un bel pacchetto e lo si manda all’ufficio
delle imposte. Dopo qualche tempo si riceve di ritorno quanto inviato, unitamente al conteggio di quanto bisogna pagare. Fine della storia. Non solo è più ampio lo spettro delle spese detraibili/deducibili e complessivamente più basse le imposte, ma non si è obbligati a fare da ragionieri per lo Stato, perdendo tempo, soldi e correndo pure il rischio di venir mazziati in caso d’errore.
Ecco, cari signori governanti, tecnocrati obnubilati da un’idea d’Europa che non si sa quale sia e per la quale state definitivamente affossando questo Paese, questo è quanto si vorrebbe, non altro. Ma voi questa strada non volete percorrerla e sapete perché? Perché nel momento in cui anche foste capaci di concepire e attuare un simile ordinamento, dovreste vergognarvi di quello che state chiedendo oggi agli italiani che lavorano del proprio, vi rendereste conto che quanto pretendete fiscalmente è iniquo e insostenibile per chiunque.
Allora meglio parlare della Costa-Concordia, meglio colpevolizzare fantomatici e ricchissimi evasori, affossatori del popolo, dipingere una rivolta per fame come egoismi di corporazione, meglio cercare di scatenare una guerra tra poveri per non essere voi – unici veri colpevoli – a dover pagare, per poter spremere ancora chi non ha più cosa dare, continuando a mantenere istituzioni inutili, pletoriche ed inefficienti. I partiti politici, apparentemente defilati, sono in realtà i principali colpevoli, quelli che garantiscono l’ossigeno a Monti e permettono lo scempio in atto.
Quando la gente si renderà conto di questo, invece di prendersela con chi non fa lo scontrino, forse indirizzerà la sua rabbia verso i veri responsabili e finirà questo artefatto clima da Stato etico. E forse allora si potrà sperare di costruire un Paese che probabilmente non diventerà mai ordinato come l’Austria, ma almeno non sarà una provincia del Burundi. Con le ovvie e dovute scuse al Burundi.
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Ribellismo e disgregazione sociale e politica
del 25 gennaio 2012 di Emanuele Macaluso
A coloro che superficialmente accostavano la numerosa protesta dei camionisti italiani a quella dei cileni contro Allende, nel 1972, Lucia Annunziata ha spiegato, raccontando i fatti, che si tratta di un abbaglio. Infatti, ciò che in questi giorni vediamo nelle strade e nelle autostrade italiane, ma anche nelle piazze siciliane, ha a che fare piuttosto con la storia e le vicende politiche di ieri e di oggi del nostro paese.
Mi soffermo sulla protesta siciliana anche perché ho letto commenti di persone che non sanno di che parlano. Il ribellismo e l’insurrezionalismo, in Sicilia hanno una storia antica. Si sono verificati negli anni delle dominazioni dei francesi, degli spagnoli, ma anche, e spesso, dopo l’unità d’Italia. Dopo la rivolta del “sette e mezzo” a Palermo nel 1866, e le inchieste parlamentari, si disse che gli istigatori erano stati il partito “regionista” e anche la mafia. In questa analisi c’era del vero, ma non tutta la verità.
Successivamente l’inchiesta di Franchetti e Sannino, esaminando le condizioni della Sicilia, mise in chiaro l’intreccio tra le responsabilità pesanti della classe dirigente siciliana e quella nazionale, anche per quel che riguarda l’inquinamento mafioso delle istituzioni e l’anomalo funzionamento della giustizia. In questo quadro il ribellismo storicamente si è riproposto. Nel 1919 i contadini di Riesi proclamarono la Repubblica, lo Stato intervenne e furono uccisi 20 lavoratori. Dopo la liberazione, nel 1944, mentre in Sicilia infuriava il movimento separatista, il governo Badoglio chiamò alle armi la classe 1924-25 per combattere insieme agli Alleati. In tutta l’Isola si verificarono violente manifestazioni contro il reclutamento: in provincia di Ragusa una popolana comunista, Maria Occhipinti, guidò una rivolta e a Comiso fu proclamata la Repubblica. Seguì la repressione.
Lo scrittore Vincenzo Consolo nel suo bel libro Le pietre di Pantalica descrive la rivolta dei contadini di Mazzarino (1944) dove furono incendiati i palazzi baronali, il comune e l’esattoria. È un episodio che ricordo perché fu una delle mie prime esperienze nel rapporto con le masse contadine. Girolamo li Causi, uscito dal carcere (dove fu imprigionato per 15 anni), dopo un impegno nel Comitato di Liberazione a Milano, venne in Sicilia e il suo primo discorso lo fece proprio ai contadini “inferociti” di Mazzarino spiegando che se non si organizzavano nel sindacato e nei partiti, avrebbero conosciuto solo repressione, carcere e miseria. E il “miracolo” si realizzò in Sicilia e nel Sud.
Ecco quel che voglio dire: sono stati i grandi partiti nazionali, con la Costituzione e il loro insediamento in tutte le regioni e i paesi, il sindacato con i contratti nazionali, a riunificare l’Italia spaccata dall’8 settembre 1943. Al Nord la Repubblica di Salò, la Resistenza e la guerra civile, al Sud la monarchia e l’anarchia politica sino alla svolta di Salerno e il governo Badoglio di unità.
Furono i grandi partiti nazionali a riassorbire il ribellismo con la lotta politica e sociale per le riforme e una nuova collocazione del mondo del lavoro nella società. Il contadino siciliano e l’operaio di Milano, il bracciante pugliese e l’artigiano veneto si sono ritrovati nei progetti unitari del Pci, della Dc, del Psi, e anche in quelli d
ei piccoli partiti. Non è un caso che il leghismo al Nord si manifesta proprio negli anni in cui si consuma le crisi dei partiti nazionali. Oggi nel Sud la storica disgregazione sociale si intreccia con la disgregazione politica. Ritorna il ribellismo impotente, frutto di condizioni esasperate, strumentalizzato da cricche, avventurieri e mafiosi, come sempre. La politica dov’è? I partiti cosa sono e cosa fanno, la Regione siciliana cos’è rispetto alle speranze dell’autonomia? Sono questi gli interrogativi che si pongono e non ottengono risposta.
I forconi sono l’emblema farsesco di una tragedia politica e sociale di cui non si vede ancora lo sbocco
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Nel Pdl l’ora del sospetto «Berlusconi s’è venduto»
del 23 gennaio 2012 di Alessandro De Angelis
Sospetti. Il Cavaliere più che alle vicende del Pdl sembra concentrato su due questioni: Mills e frequenze. E tra gli azzurri si mormora: «Si è venduto».
Il sospetto circola con sempre maggiore insistenza. Impensabile fino a poco tempo fa: «Berlusconi si è venduto a Monti, e ha sacrificato tutti». Troppo eloquente il suo silenzio, per non far parlare le malelingue pidielline. L’Italia è bloccata da forconi e rivolta delle categorie, il governo, giorno dopo giorno, lavora ad archiviare un’epoca. E lui, il Cavaliere, tace.
Parla con Monti e assicura che l’esecutivo ha il suo sostegno, il minuto dopo, di fronte ai suoi, giura che è pronto a staccare la spina. Prende tempo, gestisce il caos di un partito in preda a una crisi di nervi. E così si va avanti. Prima le liberalizzazioni, un colpo micidiale alla base sociale del centrodestra, varate con urgenza e pugno di ferro. Poi la cancellazione, con un tratto di penna, di uno dei simboli del berlusconismo, il Ponte sullo stretto. Poi ancora il tentativo di rinviare le Olimpiadi di Roma, care ad Alemanno quanto a Gianni Letta. Ieri i provvedimenti sul lavoro, su cui Monti ha mostrato ai sindacati ciò che al Pdl ha concesso molto meno, ovvero la capacità di ascolto.
Una sequenza impressionante. Di fronte alla quale, l’ex premier sceglie di restare nell’ombra, lasciando passare l’idea che adesso non ci sia alternativa. Nel momento in cui questo giornale va in stampa è iniziata ad Arcore una cena con Bossi, per trovare una «quadra minima» dopo l’ultimatum del Senatùr: «O fai cadere Monti o salta la giunta lombarda». Più di un pidiellino di rango però racconta che il Cavaliere si è predisposto a una mediazione con la Lega sulle amministrative, senza mettere sul tavolo il futuro di Monti. Nonostante pure mezzo Pdl, a partire dagli ex An, invoca il voto subito. Oppure l’ipotesi b, ovvero chiedere sì le urne, ma mettendo in conto una nuova traversata nel deserto: perdere pezzi pur di mettersi all’opposizione di Monti, trasformarlo nel nuovo Prodi, inveire contro il «governo del ribaltone», insomma una lunga campagna elettorale.
Nessuna di queste ipotesi è stata davvero presa in considerazione da Berlusconi. Perché in questa fase la sua testa, mormorano nella cerchia ristretta, non è «sulla politica» ma «su giustizia e Mediaset». Febbraio è una mese cerchiato in rosso sul calendario. Alla procura di Milano è in atto una corsa contro il tempo per arrivare alla sentenza l’11, tre giorni prima che il reato cada in prescrizione: «Stanno lavorando solo per processare me» ha sussurrato Berlusconi ai suoi con preoccupazione. Già, preoccupazione: stavolta non c’è una maggioranza pronta a votare qualunque diavoleria per salvarlo e per allungare i tempi. Meglio allora non irritare le «manine» cui sarebbe sensibile la procura. E meglio non far rullare i tamburi nemmeno in vista del 17 febbraio, quando la Consulta si pronuncerà sul conflitto di attribuzioni in merito al Rubygate.
Ecco il silenzio. Il calendario della riemersione politica dell’ex premier prevede che, chiuso il capitolo giustizia, tutti gli sforzi vanno concentrati su Mediaset. Finché Passera non metterà mano al decreto ministeriale per valorizzare al meglio le frequenze, la partita politica si gioca sottotraccia. Finora il Cavaliere è riuscito a limitare i danni, visto che il ministro ha rallentato sul progetto iniziale di un’asta. Ma di qui a dire che il pericolo è passato rispetto ai vantaggi del beauty contest c’è un abisso. Anche perché questa volta il Cavaliere ha davvero paura, ora che Mediaset va male: «Hanno in mano – ripete – l’arma della ritorsione contro di me. Sarebbe davvero una legge ad personam».
Giustizia e Mediaset, Mediaset e giustizia. Sono questi i dossier della grande paura. Berlusconi li sta seguendo personalmente, lasciando ad Alfano il compito di gestire un partito in ebollizione. Una divisione di ruoli che alimenta il sospetto su Berlusconi che «si è venduto», mentre Alfano si sarebbe «seduto a tavola» pur di gestire qualche strapuntino di potere: nomine, Rai, tutto quello su cui l’Abc – acronimo della maggioranza Alfano-Bersani-Casini – ha un qualche potere di influenza. Poca politica, atteggiamento blando sul governo, silenzio sui tanti forconi che si agitano nel paese. L’intervista di ieri al Messaggero del segretario del Pdl ha scontentato tutti: «Se non si prende una decisione – va ripetendo da giorni La Russa – non può che andare peggio, non siamo né carne né pesce, invece la gente vuole messaggi chiari». Con l’aria che tira in molti cominciano a farsi una domanda: «Se andiamo al voto sostenendo Monti per un altro anno, che diciamo in campagna elettorale?». La prima, senza Berlusconi.
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Il sindaco di Adro scrive a Napoletano “Ci vergogniamo di averla come Presidente”
del 26 gennaio 2012 di Davide Vecchi
Il primo cittadino del paese bresciano noto per essere stato tappezzato dal Simbolo delle Alpi, attacca pesantemente il Capo dello Stato colpevole di aver nominato Cavaliere l’imprenditore che pagò la mensa a quei bambini esclusi perché i genitori erano morosi. Oscar Lancini si ribella e manda una missiva al Quirinale: “”Ci ha offeso, venga a scusarsi con la mia gente, è un suo dovere morale””
“Ci vergogniamo di averla come Presidente. Venga a chiedere scusa alla mia gente, è un suo dovere morale”. Il sindaco di Adro, Oscar Lancini, torna a far parlare di sè. Se la prende con il Capo dello Stato, ritenuto colpevole di aver “insultato” i cittadini del piccolo comune bresciano noto per essere stato tappezzato dal Sole delle Alpi e per aver vietato la mensa scolastica a bambini di genitori morosi per 10mila euro complessivi. Una situazione che spinse un imprenditore locale a saldare il debito e scrivere una lettera al Corriere nella quale accostava l’azione “razzista” del sindaco a quella dei nazisti. Gesto che è valso all’imprenditore la nomina a Cavaliere della Repubblica da parte di Napolitano. Nomina che ha scatenato il sindaco: “Le onorificenze quando consegnate a cani e porci fanno divenire ingiustamente porci o cani anche quelli che le hanno meritate”. E questo è solo l’incipit della lettera, che il fattoquotidiano.it pubblica in esclusiva, inviata il 23 gennaio e che oggi alle 11 sarà presentata in una conferenza stampa appositamente convocata in Comune ad Adro.
Per esprimere il suo “punto di vista” Lancini riempie quattro pagine. Invoca le scuse di Napolitano, prende le distanze dall’imprenditore benefattore che ha “purtroppo” il suo stesso cognome (ma “non siamo parenti”), lo accusa di aver “sfruttato” i bambini per “fare pubblicità alla propria azienda” e rivendica il diritto di usare il Sole delle Alpi che, sottolinea, non è “un simbolo di partito” ma significa “appartenenza radicata della gente a un territorio dalla storia millenaria”. Quale? “La Padania”. Quella che per Giorgio Napolitano non esiste. Lo ha detto e ribadito chiaramente, il Capo dello Stato: “Il popolo padano non esiste”. E invece Oscar Lancini glielo ripete, costringendolo a doversi interessare nuovamente di qualcosa che non c’è. Il sindaco rivendica con orgoglio che il suo sia un popolo leghista.
“Ho l’onore di guidare come Sindaco dal 2004 il comune di Adro. Nel primo mandato fui eletto con la lista monocolore Lega Nord con il 44,65% dei voti, nel secondo mandato, quello tuttora in corso, sempre con lista monocolore Lega Nord, sono stato riconfermato con il 61,08% dei voti”, scrive Lancini. Insomma: avrò diritto a parlare a nome dei cittadini? L’onoreficenza, quindi, “la reputo ingiusta e offensiva per la mia gente”. Perché, spiega, “la realtà sulla vicenda della mensa di Adro non corrisponde certo a quanto riportato dalla stampa e dalle televisioni, sempre affamate di notizie da trasformare in patetici e fantasiosi scoop. Un esempio su tutti sia la puntata di Annozero di Santoro, faziosa e filo comunista”. Ce n’è per tutti. Compreso il cosiddetto “benefattore di Adro”, l’imprenditore Silvano Lancini. Scrive il sindaco: “Premiare il ricco Lancini per il gesto ‘nobile’ – nobile se fosse rimasto anonimo, poiché la generosità è una medaglia che si appunta all’anima e non al petto – di contribuire alle casse della mensa trovatasi in difficoltà a causa dei mal pagatori, sarebbe stato già eccessivo. Questo ‘signore’ ha agito così perché poteva permetterselo, ha agito come in passato molti altri cittadini hanno agito, e senza ricevere onorificenze”. Inoltre “appare chiaro che il ricco Silvano ha compiuto il suo gesto al fine di ottenere due risultati”, il secondo “deprecabilmente andato a buon fine, era fare pubblicità alla propria azienda”. Come? Lancini ha le idee chiare e spiega: “La donazione era esplicitamente subordinata alla consegna di una lettera alla stampa. Lettera che ha pesantemente offeso l’intera comunità, le nostre famiglie, l’autorità civile, e l’istituzione religiosa”.
La lettera pubblicata dal Corriere della Sera era di fatto piuttosto forte nei toni. Lancini ne riporta un breve estratto, specificando che tra i due “non intercorrono rapporti di parentela”. Scrisse l’imprenditore: “So bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo. Ma dove sono i miei sacerdoti? Sono forse disponibili a barattare la difesa del crocifisso con qualche etto di razzismo”.
Ora, nell’onorificenza che Napolitano ha riconosciuto all’imprenditore, il sindaco di Adro vede una offesa per la comunità perché premia, scrive ancora nella missiva inviata al Capo dello Stato, “una persona che ha sfruttato la situazione per fini personali, una persona ricca che ha regalato dei soldi a chi non voleva pagare”. Quindi “egregio Presidente, ma come si permette? L’onorificenza ha avvalorato le offese scritte dal signor Lancini Silvano! Conferire il titolo di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana a tal ‘signore’ che con la complicità dei media ha dipinto la mia comunità come una comunità egoista e razzista, mi permetta, è stato un gesto sconsiderato”.
La mia gente, prosegue Lancini, “non può certo essere paragonata ai fascisti e ai nazisti della secondo guerra mondiale. I miei preti non possono essere considerati degli ingordi di denaro come i mercanti nel Tempio”. I cittadini del luogo “devono vergognarsi sì, ma di ben altro: si devono vergognare di avere un concittadino (Silvano Lancini) che di loro pensa questo e – aggiungo io ora – di avere un presidente della Repubblica che lo ha addirittura onorificiato. Venga ad Adro e chieda alla mia gente come stanno veramente le cose, venda ad Adro e chieda scusa alla mia gente. E’ un suo dovere morale”. Infine il monito: “Non si stupisca se il popolo del Grande Nord si sente sempre più distante da Roma e dalle sue istituzioni. Sono anche questi gesti sconsiderati che creano le distanze”. Chissà se il Quirinale prenderà per buona la lettera o la considererà uno scherzo di qualche burlone che crede nell’esistenza della Padania.