Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, intervenendo a Santa Margherita al convegno dei giovani imprenditori, ha spiegato la sua ricetta per i problemi dell’economia e del lavoro in Italia: “L’idea è più salari per più produttività, per una maggiore competitività delle imprese, maggiori vendite all’estero e, quindi, stipendi più alti per la riattivazione della domanda interna”.
Mentre a parole si parla del personale come della risorsa più importante, dall’altro, sia in mansioni despecializzate che in ruoli di responsabilità, il costo è l’unica voce assunta come criterio di selezione, con l’impoverimento graduale in termini di conoscenza, di spirito di gruppo, di adesione al progetto dell’impresa. Un tempo, soprattutto qui in Emilia, un’azienda era composta dall’imprenditore, dalle maestranze, dalle strutture, dal patrimonio, dal territorio e dagli stakeholder; tutti navigavano sulla stessa nave. La crisi ha riportato in auge la concezione che l’impresa si identifichi con il suo padrone e tutto il resto è soltanto uno strumento, da attivare o spegnere al bisogno, attraverso le riduzioni di personale, le delocalizzazioni, le esternalizzazioni produttive.
Ovviamente ci sono imprenditori preparati che investono in prodotti, marketing, brevetti, innovazione e ricerca. Sono quelli che non si lamentano del costo del lavoro, perché ‘sanno’ utilizzare le risorse a disposizione, sanno motivarle per una produttività ottimale e sanno guardare avanti, non al resoconto bancario del trimestre. Vogliamo ricordare quel capitano d’industria capace, visto i costi della materia prima, di bloccarne ogni acquisto, salvo poi scoprire di avere paralizzato la sua fabbrica? Non è una leggenda e non è un caso isolato.
Vincenzo Boccia non può tracciare una linea retta e conseguente per legare la produttività agli stipendi più alti come fosse una equazione: maggiore produttività = maggiore competitività delle imprese = maggiori vendite all’estero = stipendi più alti = riattivazione domanda interna.
La produttività da sola non basta a garantire la maggiore competitività di un’azienda, basata piuttosto sulle caratteristiche del suo prodotto, sulla capacità di ‘comunicarlo’ e di servirlo, prima che sulla quantità; sono funzioni che vedono la responsabilità diretta di proprietà, quadri e i dirigenti, non la manovalanza operaia o impiegatizia. Un’impresa che non sa dare alle sue maestranze salari dignitosi e prospettive per il futuro è un’impresa sbagliata come mission o condotta male.
La competitività, pur essendo un prerequisito, non è garanzia di maggiori vendite all’estero, influenzate dai mercati, dalle scelte politiche, dalle guerre, dalla finanza internazionale e sicuramente gli stipendi non sono collegati automaticamente ai bilanci aziendali; chiedetelo ai dipendenti sballottati in tempo di crisi che assistono alla ripresa, senza ricevere alcun aumento non dovuto per contratto e sono costretti a ringraziare per avere ancora un posto di lavoro. Né stipendi bassi significano più assunzioni perché nessuno aumenta il personale se non è assolutamente indispensabile; per farlo utilizzerà il sistema sociale più conveniente e meno vincolante, meglio se con contributi dello stato.
Certamente più soldi nelle tasche degli Italiani porterebbero ad un aumento della domanda interna, salvo che non servano a pagare le tasse e i servizi perché quelle che apparentemente tolgono da Roma, le aumentano a livello locale, oppure, svendono servizi ai privati, spostando la ricchezza dalla comunità a poche mani, senza riuscire ad aumentarla. Spessissimo i guadagni delle nuove compagnie nascono dallo sfruttamento del personale e dagli stipendi da fame.
Il concentramento del commercio in un numero sempre minore di mani, quelle della grande distribuzione, che ha iniziato a mangiarsi, la distribuzione della benzina, la distribuzione dei giornali, dei libri, della musica, provoca la chiusura dell’attività di migliaia di microimprese locali, con la trasformazione di lavoratori autonomi e commercianti in commessi e dipendenti. Il loro reddito, invece di arricchire il territorio, ora vola lontano, spesso neanche in Italia.
Signor presidente di Confindustria, io non sono un esperto e ragiono terra terra; la produttività è un indice importante, ma da sola non basta. La invito ad evitare che sia una terra promessa in sostituzione dell’art. 18, il padre di tutti i mali e di tutte le debolezze del settore industriale italiano. Infatti, da quando è stato abolito, l’Italia è cambiata da così a così.
Proprio: da così a così.