Editoriali e note di domenica 29 gennaio 2012

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Questa rubrica - ancora in fase di allestimento – propone un approfondimento di tematiche mettendo a confronto i diversi articoli che sull’argomento sono stati pubblicati dai quotidiani italiani a diffusione nazionale presenti nelle edicole o nel web.

Gli articoli di cui proponiamo la lettura contengono tutte le indicazioni idonee per individuarne la fonte o il link per una diretta consultazione.

Le stelline, come ormai prassi, indicheranno l’autorevolezza di un pezzo. (Da leggere ê Da non perdere êêDa conservare êêê)

Anche in questo spazio saranno apprezzati i commenti dei lettori.

 

L’argomento da approfondire in questa rassegna stampa e’: Editoriali e note di domenica 29 gennaio 2012

 

 

 

I sindacati, il ministro e il pd

Il passaggio più insidioso

del 29 gennaio 2012 di Angelo Panebianco

 

La ragione principale per cui i governi tecnici non esistono è che la politica non va mai in vacanza. Anche il governo Monti è obbligato a contrattare le sue scelte, implicitamente o esplicitamente, con le forze parlamentari dal cui consenso dipendono le sue possibilità di durata e di azione. La condizione di sussistenza del governo sta nella sua capacità di agire, imponendo al Paese i sacrifici necessari, senza dare l’impressione che il loro costo non sia distribuito equamente fra gli elettorati di riferimento delle forze parlamentari che lo sostengono. Può essere, ad esempio, che sia stato un errore non aver varato contestualmente le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Perché se il governo mostrasse maggiore timidezza nella riforma del lavoro di quella mostrata nel caso delle liberalizzazioni, ne deriverebbe un effetto boomerang: forti tensioni emergerebbero entro la grande coalizione parlamentare e la turbolenza politica potrebbe diventare incontrollabile.

Con le liberalizzazioni sono state toccate, soprattutto, categorie di lavoratori autonomi che rappresentano una componente rilevante del bacino elettorale del Pdl. La riforma del mercato del lavoro, invece, va a toccare interessi che fanno parte della constituency elettorale del Partito democratico.

Negli ultimi giorni si era diffusa l’impressione che il governo non stesse manifestando nel secondo caso la stessa grinta che, lodevolmente, aveva usato nel primo. Ad esempio, la settimana scorsa, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di fronte alla dura opposizione dei sindacati, sembrava sul punto di ritirare il documento che il governo aveva preparato sulla riforma del lavoro (Enrico Marro, Corriere della Sera , 27 gennaio). Ieri, però, sia il ministro Fornero sia il premier Monti hanno rilanciato con forza il tema ribadendo che si tratta di una priorità assoluta per l’esecutivo.

Abbiamo certamente bisogno della riforma incisiva (che, come dice Monti, combini flessibilità ed equità, protegga i lavoratori piuttosto che i posti di lavoro) promessa dal governo al momento del suo insediamento. Se però l’iter di riforma si arenasse il guaio sarebbe doppio. Per gli effetti economici negativi. E per le conseguenze politiche destabilizzanti. Se risultasse che al lavoro autonomo vengono imposti prezzi più alti che al lavoro dipendente, in virtù del superiore potere di interdizione di cui dispongono i sindacati, l’equilibrio politico su cui si regge il governo si spezzerebbe. Manca solo un anno alle elezioni e tutti, naturalmente, devono fare i loro calcoli.

Quella del mercato del lavoro, peraltro, non è l’unica partita politicamente scottante ancora aperta. Le liberalizzazioni hanno fin qui colpito i «piccoli» ma hanno appena sfiorato i grandi, le banche in primo luogo. Si aspetta, con una qualche impazienza, il secondo round.

E poi vale per le liberalizzazioni ciò che vale per il provvedimento di semplificazione burocratica testé varato. Non è solo il Parlamento che può vanificarne gli aspetti innovativi. In Italia sappiamo per lunga esperienza che le innovazioni possono essere neutralizzate o ammorbidite anche dopo l’approvazione parlamentare, quando si passa ai regolamenti attuativi.

E c’è poi il capitolo, ancora da scrivere, delle privatizzazioni. Delle quali si può dire che oltre al vantaggio di aprire i mercati alla concorrenza, con i benefici collettivi che ne conseguono, hanno anche quello di non poter essere facilmente annullate dall’azione dei governi successivi. E anche questa sarà una partita che farà correre qualche rischio agli equilibri politici.

Non sappiamo come verrà giudicato in futuro il governo Monti. Probabilmente, sarà considerato l’artefice di una autentica svolta nella storia del Paese oppure solo un intermezzo, a seconda che esso riesca o meno a fare in modo che i frutti della sua azione non assomiglino alla tela di Penelope, che non si possano archiviare con la stessa rapidità con cui sono nati.

 

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Una lettera per la Camusso che viene da lontano

del 29 gennaio 2012 di Eugenio Scalfari

 

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Pe
r esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.

La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.

I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti.  Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra.

Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “”particulare”” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

 

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Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l’ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d’una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.

Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.

Quella stessa Federazione fu poi l’elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei “”servizi deviati”” che facevano capo a Gladio e alla P2.

Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l’altra politica.

Chiedevano, e nell’intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.

Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell’82 e nell’84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell’84 la Federazione si ruppe. D’altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l’urto delle nuove tecnologie produttive e dell’economia globalizzata e finanziarizzata.

Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo      già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani – di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall’emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d’interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L’emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l’interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell’intervista sopracitata) che a
nteponga l’interesse generale del Paese al “”particulare”” delle singole categorie.

Perciò l’intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d’interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.

Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell’economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. “”No taxation without representation””, questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d’una società come la nostra dove l’85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell’Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.

I principali interessati al rinnovamento del Paese    ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato    sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l’interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l’equità impedisca la macelleria sociale.

 

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La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l’agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l’avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l’Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l’Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch’essi inesistenti dell’immensa platea dei migranti. Ecco perché l’agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall’emergenza e dalla necessità di farvi fronte.

Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell’economia italiana. Dipende dall’Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.

La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d’un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.

Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l’avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l’ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.

 

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Ius primae navis

Del 27 gennaio 2012 di Massimo Gramellini

 

Una bella notizia, finalmente, e ne sono debitore al nostro inviato al Giglio, Chiarelli. Temevo che il plastico della Concordia che da giorni bordeggia fra le poltrone di «Porta a Porta» fosse un falso ispirato al modellino della vasca da bagno di Cogne. Avevo letto che il plastico originale, rigorosamente in scala, era stato collocato sull’isola, nel centro operativo dei vigili del fuoco, per fornire informazioni logistiche ai sommozzatori prima delle immersioni. Possibile che privilegino l’opera di salvataggio alle esigenze televisive? – mi ero chiesto con stupore. Infatti non era possibile. Gli armatori hanno c
oncesso il plastico della Concordia a Vespa. Ai vigili del fuoco hanno rifilato quello della nave gemella, la Serena. Tanto, si sono detti, per i sommozzatori non cambia niente. Mentre cambia moltissimo per la tv, poiché solo su uno dei due modellini campeggia il nome sinonimo di audience: Concordia.

I sommozzatori, gente rude e all’antica, non l’hanno presa benissimo. Pare siano ancora fissati con la teoria secondo cui la realtà viene prima della finzione e salvare le persone resta più importante che intervistarle in tv. Ma sono rimasti gli unici a pensarla così: persino la Protezione Civile non ha avuto nulla da obiettare sul fatto che a Vespa spettasse lo ius primae navis. A proposito: il parroco di realtà Brianza aveva raccontato ai fedeli che sarebbe andato in ritiro spirituale per una settimana e invece sapete dov’era? In crociera sulla Concordia. Quella nave tragicomica che non può risollevarsi né affondare sta diventando ogni giorno di più l’autobiografia della nazione.

 

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Il vero regime arriva dopo il Cav

 

E’ quello che vorrebbe imporre la sinistra, cancellando le idee maturate in questi anni

del 29 gennaio 2012 di Giuliano Ferrara

 

Quello di Berlusconi non era un regime, lo abbiamo visto, e invece è un regime potenziale il castello di propositi e ambizioni di cui si nutrono i suoi arcinemici, una certa sinistra nutrita dalle idee e dalle battaglie del gruppo Espresso-Repubblica .

Berlusconi ha vinto tre volte le elezioni, è stato all’opposizione per undici anni complessivi da quando entrò in politica, ha cambiato alla radice il modo di essere dei partiti e dei gruppi sociali, le abitudini e la mentalità della classe dirigente, si è definito come un fenomeno internazionale, un caso di scuola nel bene e nel male, dall’alternanza realizzata al conflitto di interessi. Due mesi e mezzo fa se ne è andato con tocco leggero in mezzo a una crisi finanziaria di cui era solo in parte responsabile, e si è accordato con il presidente della Repubblica per un governo tecnico di tregua e, come si dice «d’impegno nazionale ». Berlusconi ha realtà, rivendicando il proprio senso di responsabilità, un rovesciamento del risultato elettorale facilitato dall’erosione progressiva della maggioranza parlamentare, e lo ha accettato senza chiedere quel che il Quirinale non poteva negargli, lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Non ha chiesto garanzie, nemmeno indirette e oblique, su alcunché: contro di lui continua un clamoroso accanimento giudiziario e un formale, sprezzante maltrattamento del tribunale di Milano, e le sue aziende sono esposte come beni al sole alla battaglia campale in corso da due decenni almeno, esattamente come nel 1994, il famoso anno della discesa in campo. Può essere che la decisione di cedere alla tregua tecnocratica si riveli alla fine fatale per chi l’ha presa, e chi scrive non l’ha condivisa, ma il fatto che ci sia stata illumina il camminopubblico di Berlusconi di una luce diversa da quella fosca e torbida che i guru dell’opinione pubblica hanno da sempre gettato su di esso.

Non era un regime tendenzialmente tirannico, come sostenevano i suoi detrattori vocianti in Italia e all’estero, quello del Cavaliere. È stato un cartello elettorale capace di vincere e di perdere, una rivoluzione di linguaggio e di costume che ha salvato dalla dannazione la vecchia destra missina, reinserita come forza di governo costituzionalizzata nel sistema, e una Lega per molti anni libera dal fantasma secessionista, ora in balìa di convulsioni e pulsioni incerte. Un’Italia che non si conosceva, ma che esisteva, è progressivamente emersa e ha rivendicato i suoi diritti di identità politica.

Anche il periclitante e trafelato centrosinistra, due Ulivi e un’Unione e una foto di Vasto e chissà cos’altro ancora, è figlio di questa esperienza politica pubblica dell’industriale e tycoon milanese prestato alla politica.

Invece qualche segno mostra che l’ambizione ideologica e civile degli arcinemici di Berlusconi è di estirpare le nuove libertà di comportamento e di idee maturate in questi anni, di liberarsi di un avversario ancora temibile e ancora utile nelle tattiche di demonizzazione, e di varare un regime di conformismo del pensiero dominante.

Il capo del Pd ha dato una buona intervista sui temi della giustizia, tende a differenziarsi, ma non basta. Sono in molti a lavorare, il giornale e partito che si chiama Repubblica in testa, per un regime fondato sull’obiettivo di sempre: sfondare la tv commerciale, prostrarla, e abbattere anche solo il ricordo di Berlusconi nei processi surreali che ancora lo perseguitano, alla ricerca di una giustizia sommaria e di condanne che hanno l’aria di un supplemento di guerra civile fuori tempo massimo. Serve, alla bisogna, mettere zizzania tra il partito di Berlusconi e il governo, dentro il partito di Berlusconi, con un supplemento di criminalizzazione ideologica dell’opposizione leghista, per la verità più che incline a farsi criminalizzare in virtù del linguaggio folleggiante e borderline del suo capo.

La campagna è in pieno corso. Non c’è uno straccio di intellettualeliberal o di opinionista o di testimone della società civile che abbia il coraggio di riconoscere che il Caimano non era un Caimano, che l’epoca dei processi e del boicottaggio della tv commerciale deve finire, si
moltiplicano invece i tentativi di rinverdire l’aggressione ad personam contro Berlusconi, e di spargere veleni capaci di scongiurare un esito ordinario di questa fase di tregua istituzionale (Monti è considerato dai republicones disertore della battaglia, con quelle sue misurate rivendicazioni di continuità con il governo del predecessore); perché il ricordo dell’animale feroce e vorace che non è mai esistito è decisivo per estirpare anche solo l’idea che possa esserci per il futuro un lascito politico di questi anni, e per consentire che la lotta politica in Italia possa non richiudersi in una conflittualità conventicolare tra lobby che considerano «populismo» l’esercizio della sovranità politica e l’alternanza di governo tra forze diverse.

Quello di Berlusconi non era un regime,il loro progetto sì. Forse bisognerebbe evitarsi l’ultimo errore di favorirlo, e bisogna fare il contrario di quello che gli arcinemici si attendono.

 

 

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Libero pensiero

Occhio, se il prof va giù vince la sinistra

del 28 gennaio 2012 di Giampaolo Pansa

 

Il Cav è in un vicolo cieco: se appoggia Monti, gli elettori del Pdl lo abbandonano. Se lo fa cadere, la maggioranza degli italiani lo punirà

Appena settantotto giorni. Da sabato 12 novembre 2011 a oggi, domenica 29 gennaio 2012. È  in questo brevissimo lasso di tempo, un lampo nell’esistenza di un leader politico, che Silvio Berlusconi ha visto svanire gran parte del potere che possedeva. Ha perso Palazzo Chigi. Ha perso un alleato decisivo, la Lega. Ha perso lo strumento di lavoro più importante: un partito unito, senza correnti né clan, schierato  senza esitazioni e per intero attorno a lui. Il  Foglio  di Giuliano Ferrara ormai chiama il Pdl il Partito dei confusi.  Forse il Cavaliere ha anche perduto una parte dei propri elettori. Ma questo nessuno può dirlo con certezza. I sondaggi sostengono che pure su questo fronte Berlusconi sia alle prese con una flessione vistosa. Tuttavia la verità si potrà accertarla soltanto dopo il voto amministrativo di primavera. Ma il vero guaio di Berlusconi è di trovarsi alle prese con una congiuntura politica che assomiglia molto a una maledizione. Come se una fattucchiera l’avesse  preso di mira, imprigionandolo in un vicolo cieco. E senza lasciargli vie d’uscita se non quelle che lo conducono, dritto dritto, verso un’altra sconfitta. Parlo delle possibili manovre del Cavaliere a proposito del governo dei tecnici che ha preso il posto del centrodestra.

Tre ipotesi – Le ipotesi più ragionevoli sono in sostanza tre. La prima è che Berlusconi continui a sostenere il governo Monti per un senso apprezzabile di responsabilità verso il Paese, già messo nei guai dalla bufera economica e finanziaria. Ma in questo caso, la conseguenza per lui sarebbe soltanto una: la perdita di un’altra quota di elettori. Quelli che ritengono i Professori capaci soltanto di tassare, tassare, tassare. È  sufficiente leggere le lettere pubblicate da più di un quotidiano, a cominciare da  Libero, per rendersi conto che si tratta di un pericolo reale per il fatturato di consensi indispensabile al Cavaliere.

La seconda ipotesi prevede che Berlusconi decida di staccare la spina a Monti, obbligandolo a dimettersi. Ma in questo caso, è molto improbabile che il presidente della Repubblica tenti di mettere in piedi un altro esecutivo. La scelta del Quirinale sarebbe una sola: sciogliere le Camere e indire le elezioni anticipate.

A quel punto, una domanda è inevitabile: chi vincerebbe? La mia opinione, molto personale, è che a prevalere sarebbe una coalizione di sinistra o di centrosinistra. Per molte ragioni. La più importante è che un buon numero di elettori non daranno certo il voto a un centrodestra colpevole di aver ucciso un governo che, a ragione o a torto, veniva ritenuto capace di affrontare la crisi italiana. La terza ipotesi ha come presupposto che sulla scena politica italiana non cambi nulla, sino alla primavera del 2013. Allora la legislatura sarà conclusa e si andrà a votare. Ma a quel punto è probabile che emergano molte novità, tutte negative per Berlusconi e il suo centrodestra. Prima ancora del voto, Monti apparirà un vincitore. È  riuscito a durare per tutto il tempo previsto. Ha fatto cose utili per l’Italia. Ha evitato un disastro incombente, il terribile rischio Grecia.  In quel caso sorgerà un quesito: il Professore vorrà accettare di candidarsi alla testa di una coalizione di tipo nuovo, oggi ancora teorica? Per esempio un’alleanza tra centro e sinistra, più una presenza corposa di tecnici? Può anche darsi che questa scelta non riguardi lui, bensì Corrado Passera, il numero due del governo odierno. In quel caso, non è escluso che Monti diventi il candidato al Quirinale, dal momento che nel maggio 2013 scadrà il mandato di Giorgio realtàa.

Lezione del passato – Sin qui il Bestiario ha messo in camp
o soltanto delle ipotesi. Ma adesso voglio ricordare qualche dato di fatto ricavato dal passato. Il primo è che Monti ha sempre avuto la stima di Berlusconi. Nel 1994, era stato il Cavaliere a mandarlo a Bruxelles in qualità di commissario al Mercato interno. Il Professore mise in luce tutte le sue doti. E nel 1999 venne confermato dal governo D’Alema come responsabile dell’Antitrust. Fu allora che Monti acquistò una statura internazionale. Disse di no alla fusione fra Honeywell e General Electric. Poi inflisse una multa pesantissima alla Microsoft.

Quello che non rammentiamo è che il profilo di Monti non era soltanto quello di un formidabile tecnico. Il Preside veniva ritenuto un’eccellenza vicina al centrodestra. Tanto da diventare un candidato possibile del blocco berlusconiano nella corsa al Quirinale del maggio 2006, quella che poi venne vinta da realtàa grazie ai voti del centrosinistra.

È  un episodio che ricordo bene perché in quei giorni stavo a Montecitorio per scrivere un diario di quanto vi accadeva, poi stampato dall’Espresso. La mattina del 9 maggio, poco prima che iniziasse il secondo scrutinio, Berlusconi ebbe una sorpresa poco piacevole. Uno dei suoi, Sandro Bondi, in seguito diventato ministro della Cultura, aveva pubblicato sulla  Stampa  un santino a favore di realtàa. Bondi spiegava al Cavaliere perché il centrodestra poteva votare per lui: «Rispetto a D’Alema che è il vero continuatore dell’esperienza comunista e togliattiana, agli occhi dei nostri elettori realtàa rappresenta un politico moderato e può essere considerato il male minore». «Beninteso» concludeva Bondi, «se non si riuscirà a consolidare attorno a Mario Monti un vasto e trasversale consenso». Ma quella del buon Sandro era una pia illusione. Il professor Monti risultava  di certo un candidato eccellente per il Quirinale. Il rebus era se lui intendeva scendere in pista e, dunque, se aspirava davvero di salire al Colle. Come la pensasse il Preside non si è mai saputo. O comunque i cronisti sul campo, a cominciare da me, non riuscirono a scoprirlo. Del resto, la mattina del 9 maggio nessuno ebbe il tempo di accertarlo. Infatti venne subito a galla quello che stavo vedendo anch’io. Mi bastò un semplice struscio nel corridoio dei Passi perduti per capire che nessun politico professionista, di nessun blocco partitico, voleva Monti tra i piedi. Era l’ennesima conferma che la Casta, già allora in crisi, non accettava estranei nel proprio club di morti viventi.

Casta proterva – Più tiravano le cuoia, più i centurioni dei partiti diventavano protervi. Per loro, la società civile non esisteva o contava come una cacchetta di mosca. Dunque immaginare il professor Monti al Quirinale era blasfemo. Persino più che sognare il terrorista islamico Bin Laden assiso sul trono di Pietro in Vaticano. Infatti quella mattina i milledieci grandi elettori raccolti a Montecitorio votarono per la seconda volta senza risultato. Sette anni dopo, il fastidio dei politici per i tecnici è diventato furibondo. Basta leggere un giornale qualsiasi per rendersene conto. La stizza per i professori sta dilagando. Tutto ciò che fanno è sbagliato. Tanto da far sembrare il governo Monti un governicchio di incapaci presuntuosi. Prima lo si manda a casa, meglio è. Quando ci si affida agli umori più che al cervello, è facile incorrere in errori madornali. Berlusconi sarà pure bollito, ma non credo sia diventato stupido. Lui sa bene che far cadere Monti vorrebbe dire spalancare la porta al trio della fotografia di Vasto: Bersani, Di Pietro e Vendola, più annessi e connessi. Una prospettiva agghiacciante. Non soltanto per lui.

 

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Favole e verità di una stagione senza vincitori

del 29/01/2012 di Mario Sechi

 

Ora che il governo dei tecnici è in sella, spero che le persone di buonsenso abbiano chiaro lo scenario: i nostri problemi sono tutti là sul tappeto e risolverli è un’impresa titanica, ben al di là di un Berlusconi o di un Monti.

 

Quando Silvio Berlusconi decise di fare il passo indietro si levò un coro che canticchiava il seguente ritornello: «Il Cavaliere nero se ne va, ogni problema dell’Italia sparirà». Schiere di parrucconi impartivano lezioni sul nuovo miracolo italiano. E gli ingenui finivano per crederci. Poi è arrivata la verità di un Paese difficile da riformare, neocorporativo, abituato ad aggirare la realtà e pronto a cambiare bandiera sempre per convenienza e mai per convinzione. Ora che il governo dei tecnici è in sella, spero che le persone di buonsenso abbiano chiaro lo scenario: i nostri problemi sono tutti là sul tappeto e risolverli è un’impresa titanica, ben al di là di un Berlusconi o di un Monti. Il governo del Cavaliere era alla frutta, non aveva una maggioranza seria per fare le riforme e fronteggiare la crisi, la transizione era necessaria, ma la realtàa del va via Silvio e il Paese rinasce è svanita in un batter d’occhio. Alcuni temi del programma politico del centrodestra sono riemersi perché validi, è perfino risorta la parola «ottimismo» che Berlusconi quasi non poteva pronunciare senza rischiare la fucilazione. Lo stesso Monti ha usato la parola «ottimismo» (dando ragione al suo predecessore) così come il ministro Passera prova a infonderne (dando dispiacere all’austera realtà). La cosa più surreale però è stata la lettura delle dichiarazioni sull’anno giudiziario. Tutti d’accordo con la Guardasigilli Severino a dire che la giustizia deve cambiare, che i magistrati devono fare un bagno d’umiltà, che le riforme sono necessarie, perfino che la separazione delle carriere non può essere un tabù e se ne discuterà. Ecco, la giustizia, il terreno di battaglia dell’era berlusconiana. Qui i partiti hanno grande torto: non hanno mai avuto il coraggio di riformarla. Invece un mal consigliato Berlusconi ha lasciato fare agli Az
zeccagarbugli, una tattica miope che gli è costata il posto di Presidente del Consiglio. Lo stesso vale per la sinistra che ha trascorso diciotto anni al codazzo delle toghe senza ottenere nulla. La magistratura è rimasta quella di sempre, Berlusconi e Bersani non governano, a Palazzo Chigi c’è Monti. Sembra la sceneggiatura di una beffa, ma è la realtà.

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Storia del soldato britannico Denis Avey

che entrò due volte ad Auschwitz per il “”bisogno di sapere””

 

Testimone volontario

Prigioniero in un campo di lavoro vicino al lager

vi trascorse pochi giorni sostituendosi a un ebreo

del 29 gennaio 2012 di Gaetano Vallini

 

È una storia particolare quella di Denis Avey, classe 1919, testimone volontario dell’orrore della Shoah. E si fa fatica a credere fino in fondo che sia davvero accaduta. Durante l’ultimo conflitto mondiale Avey vestiva la divisa dell’esercito di sua maestà britannica. In Egitto fu catturato dai tedeschi e portato in un campo di prigionia vicino ad Auschwitz. Lì, “”tormentato dal bisogno di sapere””, di vedere per quanto possibile con i suoi occhi ciò che si intuiva, prese una decisione impensabile: sostituirsi a un detenuto ebreo che aveva conosciuto sul luogo del lavoro forzato che accomunava prigionieri di guerra e altri internati. Lo fece per due volte, indossando la casacca a righe con la stella gialla. Rimase nel famigerato lager solo per pochi giorni. Ma tanto gli bastò per osservare l’inferno.

 Tornato libero avrebbe voluto testimoniare quanto visto, ma non ci riuscì; a guerra finita era più comodo celebrare l’eroismo piuttosto che interrogarsi sulle atrocità. “”Nel 1945 nessuno aveva voluto ascoltarmi””, dice oggi, a 93 anni, dopo aver deciso di scrivere le memorie di quell’incredibile avventura. Il libro è divenuto subito un bestseller in patria e in Italia – dove è uscito con il titolo Auschwitz. Ero il numero 220543 (Roma, Newton Compton, 2011, pagine 331, euro 9,90) – è già alla quindicesima edizione in due mesi, segno evidente della curiosità suscitata da una vicenda tanto inconsueta.

Il prologo del volume, scritto con il giornalista della Bbc Bob Broomby che lo aveva intervistato per la tv rendendo così nota per la prima volta la vicenda dopo sessantacinque anni, è storia recente. Parla della visita che Avey ha fatto al numero 10 di Downing Street il 22 gennaio 2010 su invito dell’allora premier Gordon Brown, colpito da quell’intervista, tanto da far inserire successivamente il nome di Denis Avey tra i ventisette inglesi “”eroi dell’Olocausto””.

Il racconto vero e proprio delle esperienze belliche è cronologico, iniziando dall’arruolamento volontario nel 1940, a 21 anni, nella 7ª Divisione britannica, i cosiddetti Desert Rats, e la successiva partenza a bordo di una nave dal porto di Liverpool. Da lì in poi c’è spazio per vicende di guerra più o meno ordinarie sul fronte africano, tra sanguinose battaglie e momenti di calma, tra atti eroici e paura. Fino alla cattura. Ed è da qui che i ricordi si fanno più drammatici, entrando nel vivo della tragedia della Shoah.

È il 1943 e Avey viene mandato nel campo di prigionia E715, sette chilometri da Monowitz (noto come Auschwitz III). I soldati inglesi e gli ebrei lavoravano insieme alla costruzione di una fabbrica della IG Farben, il colosso della chimica che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivano gli stenti, il peso di undici ore di fatica al giorno, ma non le vessazioni, le torture, le esecuzioni arbitrarie, che erano riservate solo a quegli uomini ombra con l’uniforme a righe e il volto terreo.

“”Molti di loro – ricorda l’anziano – ci imploravano, semmai fossimo riusciti a fare ritorno a casa, di raccontare al mondo ciò che avevamo visto. Gli uomini a righe sapevano bene quale fosse il destino in serbo per tutti loro. La prova era nel tanfo che usciva dai crematori. E sì che anche noi avevamo sentito le voci che giravano a proposito delle camere a gas e delle selezioni, ma io non potevo accontentarmi delle dicerie. Le parole “”congettura”” e “”ipotesi”” non appartengono al mio vocabolario. Se anche non avevo cognizione delle differenze tra un campo e l’altro, dovevo scoprire a tutti i costi cosa stesse trasformando quegli esseri umani in ombre””.

Fu così che l’anno successivo Denis Avey decise che non poteva restare lì senza sapere che cosa accadeva realmente dietro l’altro reticolato. “”Con il trascorrere delle settimane – racconta – riuscii di tanto in tanto a scambiare qualche parola con Hans (un prigioniero ebreo, ndr), e nella mia mente prese forma l’idea di prendere il suo posto””. Convinse Hans, ben lieto, nonostante il rischio mortale, di poter mangiare qualche pasto decente; studiò i movimenti di prigionieri e guardie, quindi agì, corrompendo qualche kapò. E mettendo volontariamente a rischio la propria vita.

Ciò che vide non è differente da quanto testimoniato dagli ebrei sopravvissuti: il denso e ininterrotto fumo delle ciminiere dei forni crematori, i cadaveri ammassati, le brutali e immotivate violenze che non risparmiavano neppure i bambini, le terribili condizioni cui erano sottoposti i deportati. Nel ricordo c’è dunque tutto l’orrore di quella caduta nell’abisso della peggiore abiezione umana. Ma c’è chi mette in dubbio la veridicità della storia. Il “”Daily Mail””, insospettito da un così lungo silenzio, si è chiesto se Avey non si sia inventato tutto. Dalle pagine del giornale ex deportati e prigionieri, alcuni storici e rappresentanti di organizzazioni ebraiche mettono in dubbio il suo racconto sia perché è simile a quello già noto di un altro prigioniero all’E751, Charles Coward, sia per diverse incongruenze, come il passaggio sotto il cartello Arbeit macht frei perchè questo era all’ingresso del campo Auschwitz I e non del III dove Avey afferma di essersi introdotto. E soprattutto temono che questa vicenda, oltre che un insulto alla memoria delle vittime, possa fornire ulteriori motivi ai negazionisti. Eppoi resta il dato essenziale che non c’è nessuno oggi che possa confermare quei fatti.

Così come nessuno può avvalorare direttamente un’altra storia contenuta nel libro, meno straordinaria ma non meno significativa, anzi sicuramente meritoria visto che riguarda la salvezza di una vita umana. In quello stesso periodo Avey incontrò Ernst Lobenthal, ebreo tedesco che gli confidò di avere una sorella rifugiata a Birmingham, chiedendogli di farle avere sue notizie. L’inglese promise di farlo e riuscì in qualche modo a raggiungerla attraverso una lettera in codice inviata a sua madre. w Quest’ultima contattò la sorella di Ernst e alcuni mesi dopo attraverso la Croce Rossa Avey ricette duecento pacchetti di sigarette. Un tesoro inestimabile nel campo, dove valevano più dell’oro.

Quelle sigarette, passate con non pochi rischi una stecca alla volta, furono essenziali per mantenere in vita Ernst ad Auschwitz. Non solo. Servirono anche a procurargli il paio di scarpe che gli permise di sopravvivere alla terribile marcia tra i ghiacci cui gli ebrei ancora vivi furono costretti dai tedeschi in fuga per evacuare il campo e che fece altre migliaia di vittime. Fu lo stesso Lobenthal a raccontare questa storia in un’intervista per la Shoah Foudation, sette anni prima della sua morte negli Stati Uniti nel 2002. Ma questa testimonianza non pare sufficiente per il riconoscimento di Avey come Giusto tra le Nazioni poiché, spiegano allo Yad Vashem, non c’è nessun altro sopravvissuto per confermare la storia.

C’è tuttavia anche chi non meno autorevolmente ritiene credibile, e quindi veritiero, l’intero racconto. Come il noto storico Sir Martin Gilbert, il quale nella prefazione definisce il libro “”di capitale importanza, perché ci riporta subito alla mente i pericoli che incombono sulla società quando intolleranza e razzismo riescono a mettere radici. Denis Avey ci avverte che fascismo e genocidio non sono scomparsi; anzi, come ha precisato, “”potrebbero verificarsi anche qui””. E ciò potrebbe davvero succedere ovunque, e ogni volta che permettiamo alla civiltà di corrompersi, o di farsi rovinare dalla malvagità e dal desiderio di distruzione””.

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Prescrizione all’italiana, garanzia d’impunità

del 28 gennaio 2012 di Peter Gomez

 

Solo a volerlo ammettere, la questione è semplice. In Italia la giustizia penale non funziona perché una parte importante di coloro i quali sono chiamati a fare le leggi non vogliono che funzioni o, nel migliore dei casi, non possono farla funzionare. E questa non è un’opinione, è un fatto. Dimostrato da quanto è accaduto negli ultimi 25 anni.

Prendete, per esempio, la questione della prescrizione. Dal 1989 il nuovo codice di procedura penale prevede che, sul modello di quanto accade nei sistemi anglosassoni, la prova si formi in aula. In questo modo il processo è diventato molto garantista: durante le udienze vengono ascoltate decine o centinaia di testimoni e tutte o quasi le indagini svolte dal pm sono ripetute. Questo è un bene per il cittadino imputato che così riduce il rischio di essere condannato da innocente, ma ovviamente implica dei tempi di dibattimento molto lunghi.

Il meccanismo insomma può reggere solo se si fanno pochi processi. E infatti chi ha ideato il nostro codice prevedeva che se ne celebrassero pochissimi: come accade negli Usa, dove l’85 per cento degli imputati, quando le prove sono forti, si dichiarano colpevoli e patteggiano la condanna ottenendo così degli sconti di pena. O in Inghilterra, dove addirittura solo il 10 per cento delle persone sotto inchiesta arriva al processo.

Nel nostro Paese invece la situazione è capovolta: in pochi patteggiano o accedono al rito abbreviato che garantisce uno sconto di un terzo sulla condanna. Perché lo fanno? Semplice, non ne hanno quasi mai la convenienza. Visto che moltissimi reati si prescrivono rapidamente, e il sistema è ormai ingolfato, è meglio tentare di resistere nella speranza (anzi nella quasi certezza) di veder tutto cancellato dal colpo di spugna del tempo prima del terzo grado di giudizio.

Da quando poi, nel 2005, il governo Berlusconi ha approvato la legge ex Cirielli, dura solo con i recidivi ma morbidissima con gli incensurati (i termini di prescrizione vengono di fatto dimezzati), la situazione è ancora peggiorata. Statisticamente è difficile che si arrivi a sentenza definitiva quando in tribunale si giudicano le contravvenzioni in materia antinfortunistica, ambientale ed ecologica; i delitti di corruzione, falso in bilancio, frode fiscale; quelli di maltrattamento in famiglia e violazione degli obblighi di assis
tenza famigliare.

Ma allora perché esiste la prescrizione? Solo per farla fare franca ai furbi e ai colletti bianchi? No. La ragione è semplice e in teoria è condivisibile: dopo un certo numero di anni lo Stato non ha più interesse a indagare su un reato perché è passato troppo tempo. Inutile lavorare (e spendere denaro dei contribuenti) per scoprire gli autori di un crimine che le stesse vittime non ricordano più.

In realtà in Italia accade una cosa diversa: spesso i reati si prescrivono quando ormai gli imputati sono stati individuati. Ci sono processi che saltano in primo grado, in appello e addirittura in Cassazione. Tutto viene cancellato quando già polizia e magistrati hanno consumato molti soldi pubblici ed energie per identificare i presunti colpevoli: un’assurdità. All’estero questo non accade. In Germania, per esempio, una volta che c’è stata la prima sentenza, la prescrizione è definitivamente interrotta. Negli Stati Uniti muore addirittura il giorno del rinvio a giudizio.

Certo, i problemi della giustizia penale italiana, non sono tutti qui. Ci sono troppe leggi, troppi reati, troppi tribunali, una procedura farraginosa, ci sono carenze di organico e di personale. Ma chiunque abbia seguito qualche dibattimento ed è in buona fede dovrebbe sapere che qualsiasi riforma è destinata a fallire se non si interviene sulla prescrizione, incentivando così i riti alternativi

Il problema è che lo sanno anche le decine e decine di parlamentari condannati, indagati o salvati da prescrizione e amnistia che, assieme ai loro avvocati, siedono a Montecitorio o Palazzo Madama. A partire da quei fedelissimi di Silvio Berlusconi che oggi dicono: se si tocca la prescrizione il governo cade.

A gente come loro una giustizia che funzioni non conviene. Perché ai capponi puoi chiedere tutto, ma non di festeggiare il Natale.

 

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