In occasione del centenario della nascita del Maestro, Bice ripropone l’articolo comparso sul numero 392-51 del 28 ottobre 2013
Oggi credo che in quel film, certo non il più bello di Fellini, ci fosse già tutto Fellini. C’era già la sua intuizione dominante: il bisogno della gente, di quella semplice soprattutto, di sognare.
Il cinema di Fellini è un cinema di sogni a occhi aperti, di fantasie smisurate, i cui personaggi restano incantati come bambini, dinanzi a tutto ciò che suscita incanto: Gelsomina davanti agli ori sfavillanti della processione, ne La strada; i tanti altri dinanzi alle luci e ai colori del circo in quasi tutti i suoi film; il Titta, la sua famiglia e i suoi amici davanti al Rex luminoso nella nebbia (dove persino il cieco riesce forse a immaginarlo, e commosso domanda agli altri di descriverlo).
È un cinema, quello di Fellini, dove l’immaginario trasfigura tutto, dove la realtà diventa tale solo in quanto sognata. La fantasia trasforma la memoria, la ingrandisce, la esagera: una suora di bassa statura può diventare una nana e una prosperosa tabaccaia un’impressionante tettona, una donna alta diventa una gigantessa e il ricordo di ciò che si lascia una sfilata d’immagini come viste da un treno in movimento (come nel toccante finale de I vitelloni).
È un cinema, quello di Fellini, dove anche la parola fine è bandita: salvo qualche sporadica volta, quasi nessuno dei suoi film termina con questa dicitura perché – come egli stesso raccontava – ogni volta che da bambino la vedeva scritta sullo schermo, capiva che il divertimento era finito. Che il sogno era finito. Che si tornava alla propria casa e alla propria quotidianità.
Ora, in ciascuno di noi c’è un bambino che, quando si diverte, qualunque sia il gioco che lo incanta, non vorrebbe smettere mai di giocare. E di sognare.
Questo, Federico Fellini lo aveva capito. Questa, la preziosa eredità da lui lasciata anche, e soprattutto, a vent’anni dalla sua scomparsa. Eredità irrinunciabile raccolta, quando non esplicitamente dichiarata, dall’incalcolabile masnada di registi venuti dopo, figli e nipoti di quel cinema. Basterebbe a testimoniarlo l’utilizzo che di Fellini hanno fatto due di tali eredi, Moretti e Sorrentino, i neo-maestri dell’odierno cinema nostrano.
Questa, la stranezza, e dunque l’importanza, di chiamarsi Federico.