“Pagine memorabili del giornalismo italiano”
Bice propone ai lettori un florilegio degli articoli scritti da alcuni Maestri del giornalismo italiano.
Da come essi hanno descritto e interpretato l’avvenimento, emergono e ritornano alla luce pagine memorabili che narrano di eventi indimenticati e si scoprono, in altre pagine, avvenimenti ignorati o sepolti dalla coltre del tempo. Il tutto scritto con maestria inarrivabile.
Nell’autunno 1956 scoppiarono tumulti operai in Polonia e in Ungheria, e il 23 ottobre una violenta insurrezione popolare travolse il governo comunista filosovietico. Quando il 1° novembre l’Ungheria annunciò la sua intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti, il Patto di Varsavia, l’Unione Sovietica reagì invadendo il Paese e soffocando nel sangue, in pochi giorni, i disperati tentativi di resistenza degli insorti ungheresi.
Indro Montanelli fu uno dei testimoni più attenti e partecipi della rivolta ungherese, di cui fu cronista per il «Corriere della Sera». Sulla scorta di un’analisi anche psicologica della società ungherese e della sua rivolta, Montanelli giunge alla conclusione che operai, contadini, studenti di quel Paese europeo in realtà avevano combattuto non per obiettivi piccolo-borghesi (il frigidaire, l’utilitaria, il telefono…), ma perché esausti e disgustati dall’ideologia marxista e in nome della libertà del loro popolo. Tutto ciò accadde dodici anni prima della «primavera» di Praga e trentatré anni prima della disintegrazione di quel Muro dell’infamia che di lì a cinque anni i comunisti avrebbero costruito a Berlino.
Alberto Broglia
Così ho visto la battaglia di Budapest (prima parte)
Questa è la storia della battaglia di Budapest e il lettore ci perdoni se la riferiamo con tanto ritardo. Mentre la combattevano, i russi ci tolsero il mezzo di raccontarla; e, in fondo, non ci resta che ringraziarli per averci tolto solo questo. È una storia parziale, naturalmente, come del resto lo sono tutte le storie. Non abbiamo che due occhi e siamo stati costretti a servircene con parsimonia, usandone uno per osservare ciò che succedeva a Budapest e l’altro per sorvegliare che non succedesse altrettanto a noi. Tenete a mente che nessuno ha visto tutto. Vi dico solo quello che ho visto io.
E vi chiedo preventivamente scusa se vi parrà troppo poco.
Il 2 sera, la popolazione di Budapest andò a letto convinta che le autorità avessero fatto male a proibire la partita di calcio che avrebbe dovuto svolgersi l’indomani al Nepstadion con la nazionale svedese. La trovavano una precauzione esagerata e rimpiangevano di non poter acclamare nel redivivo Puskas [1] , oltre che il grande campione e capitano della squadra, l’eroe dell’insurrezione.
In quel momento, tutto il Paese era già sotto il controllo militare sovietico, ma non ci credeva. Non ci credevo nemmeno io che, impigliato la notte precedente in una colonna di carri armati russi, ero stato involontariamente testimone oculare dell’occupazione. La tecnica di quel colpo a sorpresa era stata semplicissima. Una colonna di carri, calata dalla Cecoslovacchia sul far del crepuscolo, tagliò la frontiera con l’Austria. La tagliò materialmente, disponendo una enorme autoblindo di traverso alla strada: era quella in cui io stesso diedi di capo alle due del mattino e che mi intimò: «Nazed! », indietro.
L’anello di acciaio
Tornando precipitosamente sui nostri passi, trovammo tutte le città, che avevamo lasciato poche ore prima in mano ai patrioti, presidiate dai carri sovietici. Stavano lì a ogni crocicchio, schiacciati al suolo come enormi immobili blatte. Le pattuglie degli insorti in armi non facevano nulla contro di essi. Solo, mettevano un grande impegno a raccoglie
rsi in capannelli davanti alla bocca dei loro cannoni. E lì seguitavano a discutere con la fascia tricolore al braccio, lo stemma di Kossuth [2] all’occhiello, vociferando insulti contro i russi, i servi della Russia, la polizia della Russia, l’esercito della Russia. E ogni volta che ne pronunciavano il nome, sputavano.
L’anello dei carri continuava massiccio e ininterrotto dalla frontiera austriaca, e, immagino, anche da tutte le altre, sino a una ventina di chilometri dalla capitale, togliendole il respiro. Il respiro, ma non l’allegria e l’ottimismo. All’alba, quando vi rientrai, la gente era già tutta fuori per le strade. E agiva e parlava senza reticenze, come se non avesse mai avuto e non dovesse mai più avere addosso la polizia segreta, le delazioni, i processi, i campi di concentramento. I partiti, al lavoro da vari giorni, avevano aperte le loro sedi e sezioni, resi noti i nomi dei capi e inaugurate le liste degli iscritti, che affluivano numerosi. La cospirazione e la clandestinità erano finite.
Sui giornali, con tanto di firma di direttore responsabile in fondo, scrittori vecchi e nuovi facevano il processo al regime e ne anticipavano un altro, democratico, occidentale, aperto a tutte le parti, ma soprattutto a Ovest. Nessuno aveva più paura di nessuno. Tutti discutevano le proprie opinioni col vicino di casa, col passante, col giornalista straniero.
E una folla minacciosa si ammassava in piazza del Parlamento, davanti a quella che era stata la sede del partito. Dicevano che negli scantinati s’erano nascosti, con mogli e bambini, trecento agenti della Ghepeù [3] locale. E aspettavano che la fame li snidasse, per giustiziarli. Dicevano anche che quel famigerato nascondiglio era stato costruito da un ingegnere di Mosca che i russi subito dopo avevano fatto scomparire in modo che non potesse rivelarne la pianta. Favole, probabilmente. Ma che dimostrano di che alone di terrore fossero circondati quei pretoriani che i padroni sovietici avevano lasciato poi allo sbaraglio, senza muovere un dito per salvarli.
Generale ottimismo
La vendetta del popolo si stava sfogando solo contro di loro, come se solo a quei sessantamila uomini si facessero risalire le responsabilità di tutto e solo essi fossero stati il comunismo. Non mi risulta che l’epurazione abbia commesso soprusi e toccato altre persone, fuorché questi sbirri pagati diecimila fiorini al mese, quando l’impiegato e l’operaio ne prendevano seicento. Budapest ne esponeva i cadaveri appesi agli alberi, orgogliosamente, come le signore espongono i loro gioielli. Ma non era ubriaca d’odio. Era ubriaca di libertà.
E al contagio di quella sbornia si restava male, specialmente noi italiani che eravamo considerati da tutti, chissà perché, complici e solidali. Venivano a cercarci in albergo per farci parlare coi capi della rivolta. Io non so, quel giorno, quanta gente vidi. E a tutti raccontai quello che avevo osservato la notte precedente. «Lo sappiamo, lo sappiamo… rispondevano ridendo. Hanno occupato le nostre città per avere qualcosa da offrire in cambio di quello che ci chiedono. Ma a Budapest non tornano. Sanno benissimo che non possono tornare. L’Ungheria sarà indipendente, neutrale e occidentale».
Prima di crederci, volli parlare col nostro ministro, Franco, e corsi in Legazione. Sorrideva soddisfatto all’idea di poter, l’indomani, abbandonare gli uffici di Pest per tornare nella sua residenza di Buda. L’aveva lasciata allo scoppio della rivolta; da allora dormiva, come tutti i suoi collaboratori, su una branda. L’ambasciatore sovietico, Antropov, gli aveva detto quella mattina che Mosca approvava la scelta di Nagy [4] come Primo ministro e che le trattative per lo sgombero delle truppe erano cominciate sotto i migliori auspici. «Tutto lascia presagire – aveva detto – una rapida e favorevole soluzione».
Disperato appello
Alle sei di sera, il generale ottimismo venne avallato da un comunicato ufficiale. Il punto più spinoso delle trattative era risolto. Le truppe sovietiche avrebbero abbandonato il Paese entro tre settimane, al massimo entro due mesi. Pranzai in allegria insieme ad amici ungheresi. Uno di essi mi promise di farmi incontrare Dudas, il Parri di quella liberazione, l’indomani. Il «Duna», l’albergo in cui tutti alloggiavamo, era un ronzio di telefoni, un incrociarsi di saluti e di evviva, un andirivieni di patrioti armati, di ausiliarie, di uomini politici con molti anni di galera dietro e molti portafogli di ministri davanti a sé.
Io avevo una stanza in comune con Mat
teo Matteotti, che mi è stato compagno in tutti questi giorni e di cui ho ammirato sinceramente l’impassibile sorridente coraggio. All’una di notte, eravamo a letto, pregustando il piacere di una lunga dormita. Una lunga dormita che durò meno di quattro ore.
Non dovevano, infatti, essere ancora le cinque, quando fummo inurbanamente risvegliati dal collega Saporito, che ci piombò in camera col cappotto buttato sul pigiama. «Sparano – annunziò -. Sentite…». In lontananza, effettivamente, si udiva un lugubre rombo, come di valanga, senza soluzione di continuità. Mi alzai di furia, invitando Matteotti a fare altrettanto. Si stropicciava gli occhi intontito, cercando di giustificare la sua voglia di sonno con supposizioni ottimistiche che il boato dei cannoni, avvicinandosi, smontava sempre più clamorosamente.
Quando mi precipitai nella centrale telefonica, tutto l’albergo era già in subbuglio. Ci trovai una povera donna, pallida in volto che mi disse: «Sono uscita una settimana fa dal campo di concentramento. Sette anni ci sono stata».
«Milano, prego. Mi dia subito Milano», ordinai con impazienza. La donna pigiò un bottone e, in attesa della risposta, continuò: «Ora dovrò tornarci. Non ci salverà nessuno».
«Insista per Milano, la prego». La donna tornò a pigiare il bottone. «Quanti morti inutili!» disse.
«Debbo parlare con Milano, a tutti i costi» incalzai quasi con violenza. La donna si mise in ascolto, poi scosse tristemente la testa. «Siamo già tagliati fuori – disse -. Siamo tutti di nuovo in prigione». Stanati dal letto da quel fragore rotolante di artiglierie, e sommariamente vestiti, tutti si precipitavano giù per le scale, trascinandosi dietro valigie rinfagottate e mal chiuse che ogni tanto si aprivano rovesciando sui gradini biancheria e suppellettili. La sala da pranzo era piena di gente assiepata davanti a un altoparlante che annunciava un importante comunicato. «Figeln, Figeln!», diceva, attenzione, attenzione. E i boati si facevano sempre più vicini.
Alla fine, l’importante comunicato venne. Era il disperato appello di Nagy al mondo libero, e tutti ormai lo conoscono. Ignoro se fosse sua la voce rotta che informava l’Occidente di ciò che era avvenuto e gli chiedeva aiuto. Contro ogni sdegno d’onore e di diritto, diceva, i russi avevano iniziato la marcia su Budapest, mentre ancora si svolgevano le trattative, e arrestato i parlamentari magiari. Un colpo di limpida marca hitleriana.
Ora, dieci divisioni corazzate precipitavano sulla capitale. I carri armati vi entrarono alle sei e un quarto e fu una terrificante calata di acciaio. Venivano da tutte le direzioni, sempre accompagnati da quel cupo rombo di artiglierie, e dilagarono sui grandi viali che menano al centro, affiancati tre per tre, con i cannoni puntati avanti, le mitragliere ai lati. A ogni crocicchio, uno si fermava, mentre gli altri proseguivano.
Indro Montanelli
(da «Corriere della Sera», 13 novembre 1956)
Riassunto di questa puntata
I fatti storici: il 1956 fu un anno cruciale, segnato da drammatiche contraddizioni per i Paesi comunisti del Patto di Varsavia. In febbraio, Nikita Chrušcëv, durante il XX congresso del partito comunista dell’Urss, denunciò apertamente, tre anni dopo la morte di Stalin, i suoi crimini politici. In giugno, disordini operai esplosi a Poznan, in Polonia, portarono al potere il comunista antistalinista Gomulka, mentre il movimento di «destalinizzazione» si propagava alla vicina Ungheria. Il 23 ottobre a Budapest scoppiò un’insurrezione popolare: fu chiamato al governo Imre Nagy, già mostratosi disposto a un moderato rinnovamento durante la sua precedente presidenza del Consiglio (1953-55). I comunisti sovietici intervennero immediatamente, ma poi parvero volersi ritirare. All’annuncio, dato il 1° novembre, dell’intenzione del governo ungherese di abbandonare il Patto di Varsavia per assumere una posizione di neutralità, l’U.R.S.S. reagì invadendo il Paese e soffocando nel sangue, in pochi giorni, i tentativi di resistenza opposti dalla popolazione. A Budapest subentrò un nuovo governo, retto dal filosovietico Kadar, mentre Nagy fu arrestato, processato e giustiziato due anni dopo.
[1] Puskas: Férénc Puskas, popolare calciatore ungherese della squadra di Budapest, la Honvéd.
[2] Kossuth: Lajos Kossuth (18021894), poeta, uno dei protagonisti della rivoluzione ungherese del 1848, soffocata nel 1849 dagli Austriaci col sostegno dell’esercito zarista.
[3] Ghepeu: G.P.U., sigla della polizia politica dell’Unione Sovietica.
[4] Nagy: Imre Nagy (18961958), uomo politico ungherese; già presidente del Consiglio dal 1953 al 1955, fu richiamato al governo nei giorni dell’insurrezione dell’ottobre 1956. Arrestato dopo l’occupazione sovietica, fu processato e giustiziato nel 1958. Nel 1989 la sua figura è stata riabilitata.