Complesso di colpa: Il collezionista di carte

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Il ventunesimo lungometraggio del settantacinquenne Paul Schrader, uno dei registi e sceneggiatori della Nuova Hollywood. I film da lui scritti e diretti narrano storie di solitudine, affrontando anche i temi della colpa e della redenzione.

 


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Tra le più autobiografiche opere di Dostoevskij, Il giocatore ha per protagonista un demonizzato dal vizio che, impassibile, subisce vincite e perdite accettando la sorte benevola o avversa, con identica imperturbabile indifferenza. Anche il carcere, come la morte, assurge a sollievo morale perché la vita è un rischio in prima istanza: quale che sia la scelta, ecco giungere il Fato a reclamare il dovuto. Materia, questa, che il recente cinema statunitense – da Eastwood a Zemeckis – sembra tenere in ragionevole considerazione, pensando a eventi storici ancora tiepidi, dove un pamphlet su valori collettivi in crisi restringe il campo a psicologie individuali; di conseguenza le colpe da scontare, fardelli di responsabilità troppo gravosi, implicano ineluttabilmente una redenzione singola a raggio più ampio. Lo riporta anche l’ottimo Stefano Santoli nel volume Fabbrica di sogni, deposito di incubi: la dissertazione su un’America indotta a far i conti con (anti)eroi o ciò che ne resta restituisce un calcolo aritmetico sin troppo nitido. Stando a ciò, lo spettatore non trasecola di fronte a tropi e ossessioni, inerenti il peccato e la redenzione, cui il settantacinquenne Paul Schrader abitua la propria filmografia aggiornandola in era postmoderna: tutto ne Il collezionista di carte, suo ventunesimo lungometraggio, serba una fantasmatica parvenza ch’è nemico invisibile, al contempo rovescio e prosieguo della geniale riflessione sulla trascendenza cinematografica (e non a caso il prodotto è un noir, da sempre genere prediletto), acquisendo un fondamento anche maggiore. Le sale cinematografiche in disuso di The Canyons si fanno annullamento umano in figure ascetiche, da Evan Lake al reverendo Ernst Toller, che coronano l’opera del regista-sceneggiatore in modo testamentario; e, per quanto indispensabili, feticci quali la narrazione off in chiave di diario, la scritta tatuata sulla schiena del protagonista (“Affido la mia anima alla Provvidenza, affido la mia anima alla Grazia”) o l’inclusione di fisionomie familiari (Willem Dafoe) contano meno della loro applicazione in senso spettrale. Il cineasta di Grand Rapids sa perfettamente come gli errori (e orrori) dei personaggi derivino da una scelta all’origine: sicché il gioco contempla codici e canoni elevati a filosofia esistenziale, ove l’annullamento di creature ridotte a salme ambulanti impone rilanci minimi (e minime perdite), contentandosi di poco, lontani da luci appariscenti o caotiche bagarre. “Non mi piace giocare sotto i riflettori, il gioco d’azzardo mi piace anonimo”, dichiara il counter William Tell, denominandosi come il leggendario eroe svizzero, al figlio d’un torturatore suo ex commilitone nell’esercito. Paradossalmente è il deleterio paradigma dell’azzardo a consentire alle pedine di restare in ballo: se la sete di rivalsa che accomuna i due protagonisti, in una sorta di rapporto paterno-filiale, richiama quelli de Il colore dei soldi, non c’è da meravigliarsi non (sol)tanto perché Scorsese – qui produttore esecutivo – è storico collaboratore per Schrader, ma anche perché i sinuosi movimenti della m.d.p. lungo le lisergiche sale o sul tavolo verde fanno de Il collezionista di carte un Casinò più teorico, sottile e introspettivo. Si accennava, infatti, a Dostoevskij nella psicologia caratteriale e nella rispettiva differenza di veduta: “Tu vivi così?”, la medesima battuta declamata dal mentore William e dal discepolo Cirk, indica una specularità esistenziale e due verità che impongono un’univoca via di fuga – il rigore, ovvero l’ordine – e spiega l’anonima icasticità del primo nella copertura degli oggetti che ne arredano la stanza. Ma l’allegorico delitto, il cui ricordo si traspone in forma di caleidoscopico girone infernale, attanaglia l’anima obbligando a un castigo ch’è definitivo regolamento di conti: l’assassinio del comune padre putativo Dafoe da parte di quello spirituale, entrambe facce di una medaglia, è una violenza spogliata d’ogni cruento quid, che Schrader sceglie di non mostrare, lasciato trapelare da ellittici strilli e gemiti fuoricampo. Il costo rimane quello della solitudine, negli interni e negli esterni, che l’iperrealismo hopperiano sublima nella fotografia di Alexander Dynan, le sinistre melodie (di Robert Levon Been e Giancarlo Vulcano) contrappuntano e il monito moralista (Tell che sollecita Cirk a riallacciare con la madre) richiama quale ineludibile presenza. Una volta tanto l’autoreferenzialità non è fuori luogo, nella continuazione di un tragitto onanistico in superficie: se l’amore ne esce vincitore (l’usuale contatto tra mani diviso dal vetro d’una prigione, che aggiorna American Gigolo e Lo spacciatore), quello del cinema nella propria trascendenza – esito catartico in un’immanenza che sopperisce alla realtà – trionfa sulla vita.

Potenza dell’estetica, nella sua estasi. E nel suo tormento.

 

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