C’è la paura di sapere: perchè vuol dire essere coinvolti, saper condividere e dover provvedere

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Così Sergio Zavoli, ineguagliabile comunicatore. In RAI dal 1947, già vice-direttore del “Telegiornale”, direttore del “GR1”e Presidente della “RAI"" .Il 09 aprile 06 è stato riconfermato senatore della Repubblica, oggi è anche testimone di riflessioni a tutto campo che Bice vi propone.

Che cos’è il giornalismo ? Che cos’è la comunicazione per Sergio Zavoli ?

 

“Occorre distinguere tra informazione e comunicazione. La comunicazione vuol dire mettersi in contatto , in relazione con qualcuno. Significa dare, trasmettere messaggi che informano e formano. Il nostro secolo è il secolo della partecipazione. E la comunicazione è fondamentale per favorire la partecipazione dei cittadini, per favorire la loro maturità umana, civile e culturale. Il vero comunicatore deve avere il massimo rispetto per gli altri. La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro. Deve essere una persona pensante, con dubbi, tanti dubbi. Non a caso, John Naisbitt sottolinea che viviamo nell’età della parentesi.

Il giornalista deve essere  protagonista di un giornalismo di tipo saggistico, attento alle grandi questioni morali, sociali, civili, ai problemi aperti dalle lacerazioni della coscienza moderna.

Il giornalismo deve essere inteso non come industria dell’informazione ma come analisi della storia e del costume per la ricerca di quegli elementi sui quali deve svilupparsi la persona e la società. Occorre essere corretti, onesti. Il giornalista è di fondamentale importanza per il presente e per il futuro. Per favorire il progresso, per la democrazia, per favorire la crescita morale, civile e culturale dei cittadini. La gente ha sete di autenticità. Crede più ai testimoni che ai maestri. E se crede ai maestri è perchè sono testimoni”

 

Lei ha incontrato e intervistato quasi tutti i protagonisti del XX secolo. Quale è stata ed è la Sua filosofia nell’intervistare gli altri ?

 

“Va premesso e sottolineato che non sono io che devo parlare. E’ la gente che deve farlo. Il mestiere di fare domande, speso in buona parte nella forma di giornalismo a me più caro, l’intervista, deve dare la parola all’altro. E’ il cercare, insieme, qualcosa”

 

Quali sono i temi che sente più Suoi, che ama analizzare, approfondire e sviluppare?

 

“ Sono temi come il potere, la fame, il razzismo, la fede, l’ideologia, la politica, la scienza, la povertà, la malattia, la fratellanza, l’economia, l’atomo, il cosmo, la giovinezza, la religione, il terrorismo, la droga, la comunicazione, la tecnologia, la bioetica, l’ambiente, la globalizzazione e così via. Sono problemi che la Storia, malgrado la sua nuova velocità, continua a lasciare insoluti; e semmai vede crescere, più o meno drammaticamente. Un cronista che voglia ripercorrere in un diario questa esperienza si muove, dunque, in mezzo a tante cose: alcune strette saldamente al ricordo, altre pencolanti, altre ancora con il destino di scomparire, magari per rifarsi vive chissà come e quando. A tenerle insieme, credo sia il bisogno, minimo e quotidiano, che tutto meriti la nostra vita, la quale chiede prima di ogni altra cosa di essere vissuta; mi domando, cioè , se essa, pur scoraggiata da tante prove orrende, non abbia in serbo, sempre, l’ostinato ottimismo con cui, dalla mattina alla sera, l’abbiamo attraversata. Fino a capire se vivere con dignità la pena e la gioia d’ogni giorno, in fin dei conti, non fosse e non rimanga già ciò che conta; specie oggi, mentre siamo raggiunti e violati, dopo una pace duramente conquistata, dai soprassalti di una Storia pronta a rovesciarci addosso altri fanatismi e nuovi bagliori di guerra; di fronte ai quali si è meno disarmati se la memoria ci ha conservato la lezione dell’esperienza e della consapevolezza, ma anche le silenziose virtù annidate nella nostra piccola vita, la sola a farci uguali. Quella che, prima di finire nella luce algida e ferma dei libri dello storico, occhieggia come può dal “diario di un cronista”; messo insieme, a veder bene, da ciascuno di noi”

 

Quest’anno, proprio in questi giorni, ricorrono i vent’anni dall’immane tragedia di Chernobyl. Lei è stato il primo giornalista occidentale che ha potuto visitare Chernobyl e fare un indimenticabile servizio per la RAI su quella grande tragedia. Un Suo ricordo, una Sua testimonianza ?

 

“ Va ricordato che solo tre mesi dopo la tragedia, il telegiornale sovietico, ed erano i tempi di Gorbaciov, della Sua “glasnost”, della Sua trasparenza e della “casa comune europea”, solo dopo tre mesi, la televisione sovietica ha riconosciuto che è stato il più grave incidente mai accaduto al mondo. Solo dopo un anno, l’autorità sovietica consentì che una televisione occidentale ne filmasse il bilancio. Andammo a Chernobyl con il proposito di capire e documentare.
Un anno dopo l’esplosione di Chernobyl ho visto, a Kiev, il più singolare dei cimiteri: quello delle foglie. Le foglie sepolte che rimarranno radioattive per un numero incalcolabile di anni. Dai danni a lungo termine, in particolare genetici, un giorno emergeranno dati oggettivi impensabili. Ma occorre ricordare che lungo la strada del suo incessante progresso, l’uomo non di rado si perde: anche nelle pagine più buie, c’è qualche segno della sua intelligenza e, insieme, della sua cecità. Così, non di rado, finiamo per distruggere le cose con le stesse mani che le hanno costruite. Abbiamo creato una civiltà che ci libera da un enorme numero di problemi e tuttavia il cammino resta ancora segnato da una quantità di errori, contraddizioni, imprevidenze. C’è , oltretutto, la paura di sapere: perchè sapere vuol dire essere coinvolti, saper condividere e dover provvedere. Ma la conoscenza è il principio di tutto, spesso ne è la salvaguardia. San Benedetto va oltre: “la conoscenza” disse “è il principio dell’amore”

 

Lei ha sempre dato grande importanza al divino, alla questione di Dio, all’uomo e alla fede. Con libri come “Socialista di Dio”, “Romanza”, con programmi televisivi come “Credere non credere” o “Viaggio intorno all’uomo”. Con tutta la Sua vita. Lei è credente ? Quale è il suo rapporto con Dio ?

 

“Premetto che io credo di non credere. Ma penso anche che vi è una forte religiosità in chi non crede. Inoltre, negli ultimi due secoli, periodicamente, si è proclamata la morte della questione di Dio, del divino. E, invece, mai come dopo due secoli di negazioni filosofiche, Dio è stato tanto presente nelle coscienze. Ma quale Dio ? Quello pregato nella nostra infanzia? L’Onnipotente, Signore della vita e della morte? L’imperturbabile, assiso tra le sue nuvole ? O il Dio sofferente e persino sconfitto, cioè partecipe delle nostre pene ?Di questo tempo si ama dire che, avendo perduto le ideologie, sta ritrovando l’ispirazione  religiosa. E’ possibile che sulle macerie lasciate dal fallimento di un’utopia creata dalla storia rinasca più vivo il bisogno di Dio ? Grandi moltitudini di uomini parrebbero aspirarvi; e non c’è luogo o circostanza in cui la fede si manifesta che non lo confermi

“Dio non è venuto a spiegare il dolore”, dice il poeta francese Paul Claudel. “E’ venuto a riempirlo della sua presenza”.

Padre Balducci diceva che “la comunità cristiana, in quanto profetica, non è rivoluzionaria in sè, ma tuttavia è chiamata a giudicare e a trasformare il mondo”. Il ritorno di Dio, dunque, non è sempre incondizionato. . Nè paiono alla vista delle fedi tolleranti, vissute su basi ecumeniche. E’ nell’aria, semmai, il contrario. Ma si può cogliere un’avvisaglia univoca: come quella dei giovani di varie razze e religioni che a Tor Vergata , si consorziano per dire a Dio che hanno scelto di volere lui, unico e solo. Forse significa che cominciano a cadere gli steccati alzati dalle religioni, ciascuna intorno al Suo Dio? Giovanni Paolo II, ad Assisi,  aveva detto che non c’è più pulpito dal quale una preghiera, se autentica, possa salire più in alto di tutte. Mi domando se un ritorno di religiosità coincide sempre con un risveglio della fede. Si stenta a credere che l’uomo d’oggi, con tante immagini ancora conficcate nell’anima da questo secolo della contraddizione (la penicillina e Hiroshima, il paesaggio lunare e la guerra etnica, il tempo libero e la tortura, la pena di morte e i trapianti, la solitudine e la globalizzazione) possa aver voglia di dimenticare. La memoria è spesso, sì, la nostra afflizione, ma anche il nostro potere di emendamento. “La parola di Dio va spesa nel nome di ciascuno e di tutti” disse Bernanos. In realtà, sebbene questa sia la civiltà della comunicazione, dell’immagine e della trasparenza, avvertiamo un senso di separatezza, d’imprecisione, di lontananza: Molte speranze si rivelano infondate, e vani molti orgogli. Dappertutto c’è un’ingovernata crescita di egoismo, di intolleranza, di crudeltà. Persino i grandi lampi della scienza, grandi e benvenuti, illuminano un mondo tecnologico non di rado inquietante. C’è una grave perdita di autorevolezza e di lucidità persino nelle scelte degli organismi internazionali, sicchè vien meno il sentimento della tutela e della garanzia, e ne soffre l’idea stessa di diritto e giustizia

All’inizio del terzo millennio, si è di nuovo sulle piste di Dio; con differenti linguaggi e varie attese lo si interpella sul senso che va dato alla vita, a cui non può bastare l’intelligenza pratica del giorno per giorno. Si rifà viva la sfida di Cristo: “Non abbiate paura !”

                                                                                                             

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