Cammino da tempo ormai nella selva oscura e il digradare del sentiero mi ha portato, al tramonto, nei pressi di un’ampia spianata.
In lontananza scorgo una zona acquitrinosa, maleodorante, infestata da zanzare, bisce e da malepiante, con qualche ranocchia che si fa ascoltare più che avvistare.
Procedo, desideroso di scorgerle, orientato dal loro gracidare. Poco dopo giungo ai bordi dello stagno acquitrinoso: una quieta foschia m’impedisce di vedere la riva opposta; tuttavia il gracchio, che si interrompe a tratti, è sempre più forte.
Dalla foschia emerge, alta e scura, la sagoma di un albero fronzuto, inquietante: riconosco un ontano.
L’ontano è un albero sinistro, un fantasma, visto anche il luogo in cui preferibilmente cresce: le paludi, spesso nebbiose. Del resto l’ontano è piantato proprio per consolidare pendici umide e franose [1] . Quando viene abbattuto, il suo legno diventa presto di colore rosso, come a voler far emergere la sua vera essenza.
Eccola finalmente la rana; protetta dalle fronde vischiose dell’ontano protese verso l’acquitrino fetido e grigiastro di melma, è assisa sul suo trono, uno stecco marcescente e verdastro: non si cura di fuggire, anzi, gonfia le gote, riempie d’aria la testa, poi emette, piena di sé, il suo grido sgraziato e insulso: “brekekekèx, koàx, koàx[2]”.
E i ranocchi, discosti, in coro:“c’è l’Entàno, c’è l’Entàno, c’è l’Entàno”.
Gonfiagote [3] è il sovrano della sinistra acqua morta e così lo chiamano gli altri animali del bosco, ma quelli dello stagno, i ranocchi suoi sudditi, storpiando il nome con cui hanno udito chiamare quell’albero, che egli considera la sua reggia, lo chiamano “Entàno”.
I ranocchi, da sempre, mi infastidiscono per la loro stolta concupiscenza di gracidare al cielo: quasi avessero cose importanti da dire, o qualche pensiero da esprimere. Invece importunano e basta, emettono solo gracidii privi di significato, sgradevoli e fastidiosi. Sono soltanto ranocchi con la testa piena d’aria.
Dopo una lunga pausa silente, forse necessaria a riempire ancora la testa di aria maleodorante, di nuovo Gonfiagote lancia il suo gracchio sempre uguale: brekekekèx, koàx, koàx.
E i ranocchi, discosti, in coro: c’è l’Entàno, c’è l’Entàno, c’è l’Entàno.
Suoni tanto privi di senso, quanto opimi di boria, ma si sa, le ranocchie sono così: tronfie e gracchianti.
Eppure un tempo, un tempo assai lontano, Gonfiagote fu un girino. Un agile e bizzarro girino.
Chissà, forse, a quel tempo, il suono emesso da quel girino, seppur privo di significato, era meno sgradevole. Meno tronfio, insensato, stolto.
[2] “Le Rane” vv 209 – 210 brekekeke;x koa;x koavx – Aristofane. Verso onomatopeico.
[3] Sovrano delle rane nella Batrachomyomachia attribuita ad Omero